domenica 20 ottobre 2019

Amor proprio

Uno straccione dei dintorni di Madrid chiedeva dignitosamente l'elemosina; un passante gli disse: "Non vi vergognate di fare questo mestiere infame, quando potreste lavorare?". "Signore", rispose il mendicante, "Vi chiedo del denaro, non dei consigli"; quindi gli voltò le spalle serbando tutta la sua dignità castigliana. Era un fiero accattone, quel signore, la sua vanità si feriva per un nonnulla. Chiedeva l'elemosina per amor proprio, e non sopportava rimproveri da un amor proprio diverso dal suo.
Un missionario, viaggiando in India, incontrò un fachiro tutto incatenato, nudo come una scimmia, sdraiato bocconi, che si faceva frustare per i peccati degli Indiani suoi compatrioti, i quali gli gettavano qualche soldo di quel paese. "Che privazione!", diceva uno degli spettatori. "Privazione?", rispose il fachiro, "sappiate che mi faccio battere in questo mondo solo per potervi ripagare con uguale moneta nell'altro, quando voi sarete cavalli ed io cavaliere".
Chi ha detto che l'amor proprio è la base di tutti i sentimenti e di tutte le nostre azioni, ha dunque avuto pienamente ragione in India, in Spagna, e in tutta la terra abitabile: e come non si scrive nulla per provare agli uomini che hanno un volto, non c'è bisogno di provar loro che hanno amor proprio. Questo amor proprio è lo strumento della nostra conversazione; assomiglia allo strumento che ci consente di perpetuare la specie: è necessario, ci è caro, ci dà piacere, e bisogna nasconderlo.

- Voltaire, "Dizionario filosofico"

venerdì 18 ottobre 2019

Noi non abbiamo scelta se non fra verità irrespirabili o imbrogli salutari

“Noi non abbiamo scelta se non fra verità irrespirabili o imbrogli salutari.
Soltanto le verità che non permettono di vivere meritano il nome di verità. Superiori alle esigenze del vivere, non accondiscendono ad essere nostre complici.
Sono verità «inumane», verità da vertigine e che si respingono perché nessuno può fare a meno di sostegni camuffati da slogan o da dèi.
Il mondo antico doveva essere ben malato per aver avuto bisogno di un antidoto così grossolano come quello che gli avrebbe somministrato il cristianesimo.
Il mondo moderno lo è altrettanto, a giudicare dai rimedi da cui si aspetta miracoli.
Epicuro, il meno fanatico dei saggi, fu allora il grande perdente, come lo è oggi.”

- Emil Cioràn, "Squartamento"


domenica 13 ottobre 2019

Compassione

Tutte le lingue che derivano dal latino formano la parola compassione col prefisso "com-" e la radice passio che significa originariamente "sofferenza". In altre lingue, ad esempio in ceco, in polacco, in tedesco, in svedese, questa parola viene tradotta con un sostantivo composto da un prefisso con lo stesso significato seguito dalla parola "sentimento" (in ceco: soucit; in polacco: wspòt-czucie; in tedesco: Mit-gefuhl; in svedese: med-kansla).
Nelle lingue derivate dal latino, la parola compassione significa: non possiamo guardare con indifferenza le sofferenze altrui; oppure: partecipiamo al dolore di chi soffre. Un'altra parola dal significato quasi identico, pietà (inglese pity, francese pitié ecc.) suggerisce persino una sorta di indulgenza verso colui che soffre. Aver pietà di una donna significa che siamo superiori a quella donna, che ci chiniamo, ci abbassiamo al suo livello.
E' per questo che la parola compassione generalmente ispira diffidenza; designa un sentimento ritenuto mediocre, di second'ordine, che non ha molto a che vedere con l'amore. Amare qualcuno per compassione significa non amarlo veramente.
Nelle lingue che formano la parola compassione non dalla radice "sofferenza" (passio) bensì dal sostantivo "sentimento", la parola viene usata con un significato quasi identico, ma non si può dire che indichi un sentimento cattivo o mediocre. La forza nascosta della sua etimologia bagna la parola di una luce diversa e le dà un senso più ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere inseme a qualcuno la sua disgrazia, ma anche provare insieme a lui qualsiasi altro sentimento: gioia, angoscia, felicità, dolore. Questa compassione (nel senso di soucit, wspòtczucie, Mitgefuhl, medkansla) designa quindi la capacità massima di immaginazione affettiva, l'ate della telepatia e delle emozioni. Nella gerarchia dei sentimenti, è il sentimento supremo.

- M. Kundera, "L'insostenibile leggerezza dell'essere", pp 30-31

sabato 12 ottobre 2019

Basho, Goethe, Tennyson

Per introdurre il lettore alla comprensione della differenza tra le modalità esistenziali dell'avere e dell'essere, mi sia lecito servirmi, a scopo illustrativo, di due composizioni poetiche di contenuto affine, citate dal defunto D.T.Suzuki in Lectures on Zen Buddhism. Una è uno haiku o haikai di un poeta giapponese, Basho, vissuto tra il 1644 e il 1694; l'altra composizione è di un poeta inglese del XIX secolo, Tennyson. Ognuno dei due autori descrive un'esperienza affine: la sua reazione alla vista di un fiore in cui si imbatte durante una passeggiata. I versi di Tennyson suonano:

Flower in a crannied wall,
I pluck you out of the crannies,

I hold you here, root and all, in my hand,
Little flower - but if I could understand
What you are, root and all, and all in all
I should know what God and man is

Tradotto in inglese, lo haiku di Basho suona all'incirca così:

When I look carefully
I see the nazuna blooming
By the hedge!

La differenza è enorme. La reazione di Tennyson alla vista del fiore consiste nel desiderio di averlo, e infatti lo "strappa" e lo tiene in mano "radici e tutto". E, se è vero che Tennyson conclude i suoi versi con la riflessione intellettualistica della possibile funzione del fiore al servizio della sua comprensione della natura di Dio e dell'uomo, è altrettanto vero che il fiore resta ucciso a causa dell'interesse che per esso nutre il poeta. Come risulta dalla sua composizione, Tennyson può venire paragonato allo scienziato occidentale che cerca la verità col metodo consistente nel disgregare la vita.
Di tutt'altro genere è la reazione di Basho al fiore. Egli non desidera coglierlo, anzi neppure lo tocca. Si limita a "guardarlo attentamente" per "vederlo". Ecco ora le spiegazioni fornite da Suzuki:

E' probabile che Basho stesse passeggiando lungo una strada di campagna quando scorse, accanto a una siepe, qualcosa di poco appariscente. Avvicinatosi, osservò attentamente quel che aveva scorto e constatò che si trattava di una pianticella selvatica, alquanto insignificante e di norma neppure notata dai passanti. Quello descritto nella composizione poetica è dunque un banale evento, e un sentimento poetico specifico trova espressione forse soltanto nelle ultime due sillabe, che in giapponese si dicono kana. Si tratta di una particella, che spesso si trova connessa a un sostantivo, aggettivo o avverbio, e che designa un certo sentimento di ammirazione, approvazione, dolore o gioia, e che a volte può essere appropriatamente tradotta in inglese con un punto esclamativo, che nello haiku in questione costituisce appunto il culmine dell'intero ultimo verso.

A quanto sembra, Tennyson ha bisogno di possedere il fiore per comprendere i suoi siili e la natura, ma il fatto di averlo comporta, come s'è detto, la distruzione del fiore stesso. Ciò cui Basho aspira è vedere e non soltanto guardre il fiore: essere tutt'uno con esso, "identificarsi" col fiore e lasciarlo vivere. La differenza che corre tra Tennyson e Basho trova piena espressione in questa composizione poetica di Goethe:

GEFUNDEN

Ich ging im Walde
So für mich hin,
Und nichts zu suchen,
Das war mein Sinn.

Im Schatten sah ich
Ein Blümchen stehn,
Wie Sterne leuchtend,
Wie Äuglein schön.

Ich wollt es brechen,
Da sagt es fein:
Soll ich zum Welken
Gebrochen sein?

Ich grub's mit allen
Den Würzlein aus.
Zum Garten trug ich's
Am hübschen Haus.

Und pflanzt es wieder
Am stillen Ort;
Nun zweigt es immer
Und blüht so fort.


Goethe, passeggiando senza meta precisa, è attratto dal piccolo fiore splendente. Confessa di aver provato lo stesso impulso di Tennyson, quello di svellerlo. Ma, a differenza del poeta inglese, Goethe si rende conto che ciò significherebbe uccidere il fiore, e ai suoi occhi questo è talmente vivo, che sente il bisogno di rivolgergli la parola e ammonirlo; e risolve il problema in maniera diversa sia da Tennyson sia da Basho: coglie il fiore "con tutte le sue radici" e lo trapianta in modo che la sua vita non vada distrutta. Goethe si colloca, per così dire, a metà strada tra Tennyson e Basho: per lui, quando s'arriva al dunque, la forza della vita è più possente che la forza della semplice curiosità intellettuale. Inutile aggiungere che, in questa splendida composizione poetica, Goethe esprime il nucleo stesso della sua concezione di studio natura.


- E. Fromm, "Avere o essere?", pagg. 28-31

Corpo presente

3
CORPO PRESENTE

La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz'aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.

Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.

Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d'allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un'altra arena senza muri.

Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c'è? Contemplate la sua figura:
la morte l'ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.

Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l'Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.

Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.

Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell'angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.

Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.

Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l'uscita
per questo capitano legato dalla morte.

Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch'abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.

Si perda nell'arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.

Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s'abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

(Originale)

3
CUERPO PRESENTE

La piedra es una frente donde los sueños gimen
sin tener agua curva ni cipreses helados.
La piedra es una espalda para llevar al tiempo
con árboles de lagrimás y cintas y planetas.

Yo he visto lluvias grises correr hacia las olas
levantando sus tiernos brazos acribillados,
para no ser cazadas por la piedra tendida
que desata sus miembros sin empapar la sangre.

Porque la piedra coge simientes y nublados,
esqualetos de alondras y lobos de penumbra;
pero no da sonidos, ni cristales, ni fuego,
sino plazas y plazas y otras plazas sin muros.

Ya esta sobre la piedra Ignacio el bien nacido.
Ya se acabó; ¿que pasa? Contemplad su figura:
la muerte le ha cubierto de pálidos azufres
y le ha puesto cabeza de oscuro minotauro.

Ya se acabó. La lluvia penetra por su boca.
El aire como loco deja su pecho hundido,
y el Amor, empapado con lágrimas de nieve,
se calienta en la cumbre de las ganaderias.

¿Qué dicen? Un silencio con hedores reposa.
Estamos con un cuerpo presente que se esfuma,
con una forma clara que tuvo ruiseñores
y la vemos llenarse de agujeros sin fondo.

¿Quié arruga el sudario? ¡No es verdad lo que dice!
Aquí no canta nadie, ni llora en el rincón,
ni pica las espuelas, ni espanta la serpiente:
aquí no quiero más que los ojos redondos
para ver ese cuerpo sin posible descanso.

Yo quiero ver aquí los hombres de voz dura.
Los que doman caballos y dominan los rios:
los hombres que les suena el esqueleto y cantan
con una boca llena de sol y pedernales.

Aquí quiero yo verlos Delante de la piedra.
Delante de este cuerpo con Ias riendas quebradas.
Yo quiero que me enseñen dónde está la salida
para este capitán atado por la muerte.

Yo quiero que me enseñen un llanto corno un río
que tenga dulces nieblas y profundas orillas,
para llevar el cuerpo de Ignacio y que se pierda
sin escuchar el doble resuello de los toros.

Que se pierda en la plaza redonda de la luna
que finge cuando niña doliente res inmóvil;
que se pierda en la noche sin canto de los peces
y en la maleza blanca del humo congelado.

No quiero que la tapen la cara con pañuelos
para que se acostumbre con la muerte que lleva.
Vete, Ignacio: No sientas el caliente bramido.
Duerme, vuela, reposa: j También se muere el mar!

- Federico Garcìa Lorca - Llanto por Ignacio Sanchez Mejia

venerdì 11 ottobre 2019

16. La Voce

La mia culla stava appoggiata alla biblioteca, cupa Babele in cui romanzo, scienza, favola, tutto, cenere latina e polvere greca, si mischiava. Io ero alto come un in-folio. Due voci mi parlavano. L'una, ferma e insidiosa, diceva: "La terra è un dolce pieno di sapore; io posso (e allora il tuo piacere non avrebbe fine) darti un appetito altrettanto grande." E l'altra: "Vieni, oh, vieni a viaggiare nei sogni, al di là del possibile, al di là del conosciuto". E questa cantava come il vento delle spiagge, fantasma, chissà di dove venuto, che vagando carezzava e insieme atterriva l'orecchio. Ti risposi: "Oh sì, dolce voce!". E' da allora che data, ahimè, quella che si può definire la mia piaga e la mia fatalità. Dietro le scene dell'immensa vita, nel più scuro dell'abisso, vedo chiaramente dei mondi strani e, vittima della mia estatica chiaroveggenza, mi trascino dietro dei serpenti che mi mordono le scarpe. E' da allora che, come i profeti, teneramente amo il deserto ed il mare; che rido nei lutti e piango nelle feste, trovando un gusto soave nel vino più amaro; che, spesso, prendo i fatti per finzioni e, gli occhi al cielo, finisco nelle buche. Ma la Voce, per consolarmi mi dice: "Tieniti i tuoi sogni; i saggi non ne hanno di più belli dei pazzi".

- Baudelaire, "Les fleurs du mal" p. 309 (Garzanti editore)

Il sogno di un curioso

A F.N.

Hai anche tu, come me, il gusto del dolore e di te ti fai dire: "Che uomo singolare!" - Stavo sul punto di morire. Nella mia anima appassionata v'era, desiderio mischiato a orrore, uno strano male;
angoscia e viva speranza, senza alcun fazioso umore. Più la fatale clessidra andava vuotandosi, più la mia tortura si faceva aspra e deliziosa; il mio cuore si staccava dal mondo familiare.
Come il bambino avido di spettacoli, odiavo l'ostacolo del sipario. Alfine rivelò la fredda verità:
ero morto senza accorgermene, la terribile aurora m'avvolgeva. - Ma come, è tutto qui? Il sipario s'era alzato, e io aspettavo ancora.

- C. Baudelaire, "Les fleurs du mal", pag. 247 (Garzanti editore)

Le generazioni Nichiliste

1. La generazione del pugno chiuso

La davano per archiviata. Ma, a sentire il ministro degli Interni Giuliano Amato, così non è. Mi riferisco a quella generazione di giovani dal pugno chiuso, che a trant'anni di distanza si ripropone: o per una richiesta d'amnistia o per il riaccendersi di alcuni temibili focolai che nulla di buono lasciano presagire.
Di che si tratta? Di quel terrorismo ideologico che non rappresenta "una serie di provocazioni illecite destinate a passare", come si pensava negli anni sett'anta e forse ancora oggi da parte di chi sottovaluta i numerosi casi di minacce ed insulti alle forze dell'ordine, ma neanche, come allora riteneva Rossella Rossanda, "la fisiologia di una società vivente di diversi soggetti e interessi nel loro aturare, incrociarsi, scatenarsi, cadere, modificare l'esistenza".
L'una e l'altra interpretazione, infatti, rimangono sul piano sociologico e perciò leggono l'emergenza o come aberrazione del corretto procedere sociale o come fisiologia che sta alla base di ogni trasformazione sociale.
Finché le definizioni non sporgono dal piano sociologico, l'alternativa "amnistia" o "soluzione politica" resta una scelta conseguente alle definizioni date. Ma il terrorismo ideologico non è un fatto sociale, bensì la rottura del patto sociale. Il patto sociale, infatti, si regola sul valore di scambio. L'emergenza terroristica interrompe il valore di scambia e sposta tutto nella sfera dello scambio simbolico dove in gioco non è la contrattazione, ma la sfida.
[...]
Il dono del lavoro, il dono del salario, il dono dei beni da consumare, il dono del tempo libero, il dono dei media e dei loro messaggi, tutto naturalmente sotto il monopolio del codice che non permette di replicare. Poi il dono della protezione, della sicurezza, della gratificazione, della partecipazione sociale, naturalmente nelle modalità previste, ma comunque tali da non consentire a nessuno di sfuggire. Avendo così ridotto i soggetti sociali da contraenti a oggetti sociali gratificati dai doni, il sistema ha preparato il terreno all'irruzione del simbolico, che ritorce contro il sistema il principio stesso del suo potere: l'impossibilità di risposta.
Un sistema sociale, infatti, è sfidato quando è posto nella condizione di non poter rispondere con la sua logica che è quella della contrattazione, tipica di ogni società che si è emancipata dalla violenza simbolica che regolava le società primitive.
Se concordiamo che il terrorismo ideologico non è aberrazione sociale o fisiologia del sociale, ma interruzione del sociale e della sua regola, possiamo dirci usciti dagli anni di piombo quando la contrattazione riprende il sopravvento sulla sfida simbolica. E' quanto sta accadendo con la legge sui pentiti, dove in un certo senso si assiste alla restarauzione dei contraenti e quindi al ritorno della contrattazione. [...]

2. La "generazione x" degli indifferenti

Non abbiamo occhi, non abbiamo schemi di lettura per capire qualcosa di molti ragazzi tra i quindici e i venticinque anni, nonostante questa generazione sia stata studiata, classificata vivisezionata da istituti di ricerca come mai era capitato ad altre generazioni di giovani.
Di loro si parla come del "pianeta degli svuotati" o come della "generazione degli sprecati", indecifrabili come una "x" ignota. I loro progetti hanno il respiro di un giorno, l'interesse la durata di un'emozione, il gesto non diventa stile di vita e l'azione si esaurisce nel gesto. La passione imprecisa non sa se aver legami con il cuore o con il sesso e non riesce a decidere con chi dei due entrare in intensa relazione.
L'aggressività non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, e l'ira di un giorno è subito cancellata da una notte, nella cui vigilia si celebra l'eccesso della vita oltre la misura concessa, in quella gioiosa confusione dei codici, fino al limite dove è il codice della vita a confondersi con quello della morte, se è vero, come abbiamo visto, che tra i giovani sotto i venticinque anni il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici. Un suicida su dieci raggiunge il suo obbiettivo al secondo tentativo, senza che in famiglia, a scuola o tra gli amici traspaia qualcosa del loro mal di vivere.
[...]
Nascono allora quelle malinconie che hanno abbandonato il tono del tumulto per frequentare le stanze della rassegnazione. E nei giovani meno autentici, neppure un attimo di disperazione, perché non si dà disperazione là dove la speranza si è da tempo congedata. [...]

3. La "generazione Q" dal basso quoziente intellettivo ed emotivo

Conoscono la differenza tra il bene e il male e se ne fregano. Che si tratti dei ragazzi che per festeggiare la fine degli esami di maturità impediscono a un extracomunitario di risalire l'argine del fiume, che si tratti dei ragazzi del cavalcavia che non per volontà omicida ma così, scaraventano pietre sull'autostrada, che si tratti di studenti universitari che, non per ragioni premeditate, ma così, traforano il cranio a una studentessa, sono questi i rappresentanti di quella "Generazione Q", come la chiama il sociologo tedesco Falko Blask, dove "Q" sta per "quoziente intellettivo ed emotivo non particolarmente elevato", che si è aggiunta alla "generazione x" raccolta nella sua rassegnata commiserazione. Blask parla di chi è affetto da "Fattore Q" come di:

Un buffone cosmico, fantasioso ed egocentrico, che rappresenta l'incarnazione ideale del mascalzone, privo di scrupoli, ma equanime, al di là del bene e del male.

Quanto basta per definire i seguaci del "Fattore Q" affetti da sociopatia o psicopatia, due parole che stanno a designare quella condizione psicologica per cui il soggetto non prova alcuna risonanza emotiva per le azioni che compie, anche le più criminose.[...]

4. Il silenzio degli squatter

Dopo la "generazione dei giovani dal pugno chiuso" che, con il grido insurrezionale e con il gesto anche violento, volevano cambiare il mondo e gridare in faccia qualcosa a qualcuno, siamo precipitati nel collasso della comunicazione: o perché non si ha niente da dire ("generazione x" degli indifferenti), o perché si è incapaci di stabilire relazioni ("generazione Q" dei sociopatici), o per decisa volontà di non parlare, di non raccontarsi e di non farsi raccontare, perché si è persa qualsiasi forma di fiducia in chi ha la possibilità di rispondere, e non risponde.
Siamo agli "Squatter", che non sono figli del benessere e neppure figli della noia. Non assomigliano nemmeno ai loro predecessori dal pugno chiuso, perché costoro volevano cambiare il mondo e lo urlavano a quanti lo volevano tener fermo nella roccaforte dei loro solidificati interessi, mentre gli squatter a questo cambiamento del mondo non ci credono più. E allora non gridano rivoluzione, ma disperata rassegnazione. Una rassegnazione che conoscono quanti non solo non ritengano che le cose possano cambiare, ma neppure che gli altri, gli uomini dell'informazione, della politica, della scuola, del mondo del lavoro, possano capire.
Dopo aver assaporato l'irrilevanza della loro incidenza sociale, gli squatter vanno alla ricerca di una nicchia dove poter mettere in scena la loro disarticolata ed epocale sventura. Dico epocale perché è la prima volta nella storia che, come vuole l'indicazione di Hegel, un "servo" non ha davanti un "signore", con cui prendersela, perché i padroni sono diventati, come i loro dipendenti, a loro volta semplici funzionari di un sistema (il mercato) che entrambi li trascende.
Accade così che per la prima volta un "disagiato sociale" non può prendersela con la politica, perché ha annusato che la politica non è più il luogo delle decisioni, essendosi questo luogo trasferito altrove: nell'economia organizzata quasi esclusivamente da fattori tecnici. Ma la tecnica, ognuno lo sa, e gli squatter lo fiutano, non ha fini da realizzare, né altro scopo a cui tendere che non sia il proprio potenziamento. E ciò trasforma da subito il lavoratore in un semplice e anonimo col-laboratore di questo potenziamento senza scopo e senza perché.
A tutto ciò lo squatter dice no! E siccome l'età della tecnica non offre più uno scenario dove si possono scontrare, come pensava Marx, due volontà, quella del "servo" e quella del "signore", ma uno scenario di automatismi tecnici muti ma efficaci e funzionali, con chi dovrebbero parlare gli squatter? Con i poltici che si trovano nella condizione di non poter decidere, ma solo far eseguire la sequenza ordinata di questi automatismi? Con gli uomini dell'informazione che ogni giorno spiegano gli atti esecutivi e non decisionali della politica, che algli squatter appare come un sovrano spodestato?
No, gli squatter cercano una boccata di senso nel mondo dell'insensatezza, che ha come una direzione la crescita infinita senza ragione e senza perché. Resta da capire se l'eco-terrorismo, di cui gli squatter sono stati inizialmente accusati, abbia qualche attinenza col mondo della tecnica che vediamo come causa prima che vediamo come causa prima della mancanza di senso dilagante. [...]

5. I ragazzi dello stadio e la violenza nichilista

Non è l'unica, ma quella degli stadi è la violenza più emblematica, messa in atto da quanti, ogni domenica, con una cadenza orai rituale, sono soliti provocare incidenti, guerriglie neppure tanto simulate, con i loro passamontaglia calati, perché la violenza è codarda, con i loro fumogeni che annebbiano l'ambiente per garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non spaventano, feriscono, con le loro bombe-carta che uccidono. [...]
La loro violenza è nichilista perché è assurda, e assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. E' puro scatenamento della forza che non si sa come impiegare e dove convogliare, e perciò si sfoga nell'anonimato della massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento in cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e qualsiasi scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, diventa completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata crudeltà nichilista. [...]
(La violenza nichilista) si ritualizza secondo quel meccanismo che Freud ci ha spiegato là dove scrive che la violenza, latente nell'inconscio individuale di ciascuno di noi, diventa manifesta nell'inconscio collettivo di massa, dove la responsabilità individuale è difficile da identificare e l'impunità generale diventa un salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione, perché la violenza nichilista è autosufficiente.
E allora l'orgia della crudeltà si ripete con monotona regolarità con cui si succedono i sabati e le domeniche di campionato. [...] E siccome la routine annoia, come i drogati, [...], hanno bisogno di dosi sempre più forti, per allontanare la noia sempre incombente.[...]
Vivendo esclusivamente per la prosecuzione di se stessa, la violenza nichilista traduce la barbarie in normalità.

- U. Galimberti, "L'ospite inquietante", pp. 123-139

giovedì 10 ottobre 2019

L’Heautontimorumenos

Ti colpirò, senza odio e senza collera,
come un beccaio, come Mosè il sasso;
e perché possa al fine dissetare
il mio Sahara, le acque del dolore
zampillare farò dalla tua palpebra.

Rigonfio di speranza il desiderio
andrà sulle tue lacrime salate
come un vascello che si spinge al largo;
nel cuore inebriato dei tuoi singhiozzi,
che mi son cari, echeggeranno quasi
un tamburo che batte la sua carica.

Non sono forse un falso accordo nella
divina sinfonia, grazie all’edace
Ironia che mi scuote e mi morde?
Tutto il mio sangue, tutto, è questo nero
veleno; ed io non sono che lo specchio
in cui si guarda la strega.

Coltello e piaga, schiaffo e guancia, membra
e ruota sono, vittima e carnefice;
sono il vampiro del mio cuore, un grande
infelice, di quelli a un riso eterno
dannati, e che non possono più sorridere.


- C. Baudelaire, "Les fleurs du mal"

Liber Novus #2

"Lo spirito di questo tempo si crede oltremodo intelligente, come succede agli spiriti di ogni tempo. La saggezza però è ingenua, non solo semplice. Per questo la persona intelligente deride la saggezza, perché la derisione è la sua arma. Usa l'arma acuminata e velenosa, perché è colpito dall'ingenuità della saggezza. Se non ne fosse colpito, quest'arma non gli servirebbe. Solo nel deserto diveniamo consapevoli della nostra terribile ingenuità, ma abbiamo timore di ammetterlo, perciò deridiamo. Ma lo scherno non arriva a colpire l'ingenuità. Lo scherno ricade su colui che schernisce, e nel deserto, dove nessuno ascolta e nessuno risponde, egli resta soffocato dalla sua stessa derisione."

P. 33

Liber Novus #1

"Avete timore di aprire quella porta? Anch'io avevo paura, giacché avevamo dimenticato che Dio è terribile. Cristo ha insegnato: Dio è amore. Ma dovete sapere che l'amore è anche terribile.
Parlavo a un'anima colma d'amore, ma quando mi accostai maggiormente a lei, fui colto da orrore e innalzai una barriera di dubbi, senza presagire che in tal modo mi volevo proteggere dal lato terrifico della mia anima.
Voi inorridite di fronte all'abisso; è giusto che proviate timore, perché di lì passa la via di quel che ha da venire. Devi vincere la paura della paura e del dubbio, e renderti conto fin nel midollo che la tua paura è giustificata, e che ragionevole è il tuo dubbio. Come potrebbe essere altrimenti una vera tentazione e una vera vittoria su di essa?
Cristo vince la tentazione del Diavolo, ma non quella di Dio verso ciò che è buono e ragionevole. Cristo cede dunque alla tentazione.
Dovete ancora imparare a non soccombere alle tentazioni, ma a compiere ogni cosa per vostra scelta; allora sarete liberi e avrete superato il cristianesimo.
Ho dovuto riconoscere che devo sottomettermi a ciò che temevo, anzi - ancor di più - che devo perfino amare ciò di cui avevo orrore. Questo dobbiamo impararlo da quella santa che, provando disgusto di fronte ai malati di peste, bevve il pus dei bubboni e si accorse che profumava di rosa. Le imprese dei santi non furono vane.
Per tutto ciò che riguarda la redenzione e l'ottenimento della grazia, tu dipendi dalla tua anima. Nesun sacrificio ti sarà pertanto troppo grave. Se sono le tue virtù a impedirti la redenzione, sbarazzatene, perché per te si sono trasmutate in male. Chi è schiavo della virtù non trova la via, allo stesso modo di chi è schiavo del vizio"

- C.G.Jung, Liber Novus, pag. 27