domenica 14 marzo 2021

Un miliardo e trecento milioni di anni fa


Un miliardo e trecento milioni di anni fa. Questo è quello che ti risponderei se mi chiedessi quando è stato che la mamma e io ci siamo innamorati.
Si tratta di una storia stranissima, di quelle vere solo se ci si vuole credere. Un po’ come quegli articoli dell’università di Boston secondo i quali una ricerca dimostra che avere uno dei nostri peggiori difetti sia la prova che siamo geniali. Tipo che se non riesci a svegliarti la mattina sei un genio. O se dici molte parolacce. O se usi sempre gli stessi vestiti. Pare che a Boston facciano solo ricerche per far sentire meno in colpa gli sciagurati. A Boston e in Canada. Sono articoli stranissimi e nel mio personale caso, volerci credere li rende più attendibili.
La storia comincia simultaneamente in tre date diverse.
La mattina del 14 settembre 2015 ebbi un malore. Finii in ospedale. Dal nulla avevo sentito una fitta alla bocca dello stomaco, mi piegai in due, resistetti qualche ora e poi supplicai mia sorella di venire a prendermi per portarmi al pronto soccorso perché non sarei stato in condizione di guidare. Non fui in grado nemmeno di salire in macchina. O di scendere dalla macchina. Fui portato dentro in barella, mi contorcevo e piangevo, mi imbottirono di roba, mi addormentarono e non ricordo altro per un po’.
Tua madre quello stesso giorno si trovava nel ristorante dove lavoravo da sette anni. Durante l’estate appena trascorsa il mio titolare aveva dato lavoro anche a lei e per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti qualche giorno non precisato di diciotto anni prima, la mia migliore amica e io avevamo potuto stare insieme tutti i giorni. Ed era stato bello. Molto. Parlavamo tanto, anche tutta la notte dopo il servizio. Hai presente quelle amicizie che per quanto profonde perdurano solo perché ci si vede una volta al mese perché si idealizza l’altro e poi non sopravvivono a una frequentazione più assidua? Tua madre e io nell’estate del 2015 scoprimmo che i lunghi intervalli tra i nostri incontri negli anni altro non erano stato che un’infinità di tempo buttato via. Venne fuori che le conversazioni al telefono di casa quando eravamo adolescenti non erano state lunghe perché ci sentivamo di rado, erano state brevi perché interrotte dai nostri genitori.
Ancora oggi tua madre e io abbiamo tante di quelle cose da dirci che non smettiamo mai di parlare.
La sua stagione lavorativa comunque era finita e per entrambi era difficile dare un nome alla confusione che quella rinnovata distanza generava. Ci vollero due settimane perché tua madre decidesse di venire a trovarmi a lavoro. E non mi trovò. Per la prima volta da quando ero stato assunto, non ero a lavoro. Ora, dovresti chiedere a lei di spiegarti come questo la fece sentire, è molto brava a raccontare questa parte. Per quanto riguarda me, io seppi successivamente da altri che sbiancò preccupata perché pare che all’epoca avessi fama di uno che va a lavoro anche con la febbre, affrontando orde di clienti voraci bendato e con una mano legata dietro la nuca. A detta di altri. Lei ti dirà che è stato un episodio rivelatore di come la mia assenza la facesse sentire, solo che lo dirà meglio di così.
In ospedale, io chiedevo a mia sorella di telefonare alla mia ragazza per rassicurarla e dirle di non venire da me. Sminuivo le mie condizioni, insistevo che continuasse la sua giornata, le proibivo di preoccuparsi. Era una brava ragazza, non aveva colpe. In tre anni di relazione non le avevo permesso di amarmi nel modo in cui lei avrebbe voluto amare, c’era un limitato numero di cose che sarei stato disposto a condividere di me stesso e se non si è precipitata ugualmente al pronto soccorso è stato solo perché subiva molto e forse troppo le mie argomentazioni, al punto da far sembrare ragionevole anche a me non consentirle di starmi accanto solo perché io avevo appena scoperto che in quel momento accanto avrei voluto qualcun altro.
E se tua madre e io avevamo bisogno di una situazione così estrema per pensarci l’un l’altra in quei termini, quella stessa situazione innescò in me una serie di considerazioni personali che richiesero molto tempo per essere metabolizzate. Fu in quel letto di ospedale che cominciai a farmi la domanda giusta. Ero uno. E attorno a me c’erano altri. C’erano gli amici, c’erano i colleghi, i famigliari, c’era la mia ragazza. Ero uno con altre persone. Negli anni avevo accettato questa mia condizione, il sereno, forse cinico e senza dubbio arrogante convincimento di essere indigesto nella mia completezza ma gradevole a piccoli bocconi. Mi ero fatto andare bene che anche in mezzo agli altri sarei stato per sempre solo, per sempre dando loro quanto bastasse a farli stare bene e tenendo in una stanza le cose di me stesso che credevo avrei capito solo io. E se a chi mi stava accanto non era consentito conoscermi, con paternalistica presunzione avrei accettato di accondiscendere a quelle consuetudini che la società impone secondo le quali a una certa età è auspicabile sposarsi e mettere su famiglia. Pur non sentendone la necessità, se davvero ero uno con qualcuno e quel qualcuno mi voleva bene, era simpatica e attraente, allora perché no? Se la mia ragazza me l’avesse chiesto, io mi sarei sposato esattamente come pochi anni prima era accaduto a tua madre con tuo padre. E per tutta la vita mi sarei accontentato di essere uno con qualcuno piuttosto che uno e basta. Ma se in cattiva sorte e in malattia non era di quel qualcuno che avevo bisogno, allora forse chiedersi perché no era la prospettiva errata. Perché sì? Questo è ciò che tutti dovrebbero domandarsi. Qualsiasi sia la scelta. Non dovremmo scegliere quel lavoro perché no, o quella facoltà perché no. O quella persona. Dovremmo sposare il perché sì. Ancora oggi, bimbo mio, se cerco altro modo per spiegarlo non mi riesce: ero uno. Anche con qualcuno ero uno. Con tua madre ero due.
Voglio essere chiaro: ci sarebbe voluto ancora molto tempo perché capissi di essere innamorato di tua madre. Quello che capii quel giorno fu che esisteva un modo in cui potessi essere me, tutto me, con qualcuno a cui non sembrava disturbare. E se nelle pieghe del suo matrimonio avessi trovato lo spazio per continuare a parlare con la mia migliore amica e essere me almeno in quei momenti, l’unica cosa giusta a cui riuscivo a pensare era lasciare andare la persona a cui non avrei mai, suo malgrado, concesso nulla di simile.
Tante cose successero dopo la fine della mia relazione, ma in buona sostanza se volessi riassumere ti direi che spesi tutti i miei risparmi per partire da solo oltreoceano, e al mio ritorno tua madre mi organizzò una gigantesca festa a sorpresa durante la quale tu che a malapena sapevi parlare mi rimproverasti per aver leccato le candeline sulla torta.
Vedi, per quanto strano ti possa sembrare leggendolo oggi, perché capissimo di dover stare insieme per tua madre e me è stato necessario intraprendere percorsi tortuosi su sentieri per lunghi tratti paralleli e spesso intersecanti, come Kate Beckinsale e John Cusack in un film uscito lo stesso anno in cui presi una cotta per una ragazzina che mi costrinse a non parlare più con lei. Idiota. Io, non la ragazzina. Lei al contrario era piuttosto sveglia se si era accorta con quindici anni di anticipo rispetto a noi che quando tua madre e io parlavamo viaggiavamo su una lunghezza d’onda che il resto del mondo non era attrezzato per captare. Una lunghezza d’onda ben strana perché estromette tutte quelle informazioni che sarebbe difficile considerare ridondanti, tipo quando ci siamo conosciuti e come, o che giorno fosse e che film stessimo guardando quando almeno diciotto anni dopo ci ritrovammo migliori amici con le mani intrecciate per la prima volta e abbiamo pianto. Né tua madre né io ce lo ricordiamo. Ricordiamo però che nella primavera del 1999 attraverso il telefono io sentii tua nonna far cadere una posata al piano di sotto e indovinai che era un cucchiaio. Ho speso due vite a cercare aghi nei pagliai senza sapere che la figlia del contadino l’avevo già trovata, per parafrasare Julius Comroe.
Eppure tua madre e io abbiamo passato quasi vent’anni a gravitarci intorno prima di collassare insieme, proprio come due stelle in un sistema binario ruotano una attorno all’altra per un tempo lunghissimo, ciascuna trasformandosi di per sé senza poter negare di essere influenzata dall’orbita dell’altra, sebbene a tratti sia così lontana che il fulcro attorno a cui ruotano può sembrare indipendente, ma solo perché in realtà si sposta con loro in un effetto fionda inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separa. Ne studiano tante, di stelle così; nel 2017 hanno assegnato il Nobel per la fisica a Kip Thorne, quello che ha scritto la sceneggiatura di Interstellar con Christopher Nolan, per aver studiato due stelle binarie che si sono girate intorno così a lungo da arrivare a trasformarsi in due buchi neri e poi hanno continuato a girarsi intorno anche così, legati da sempre in un destino condiviso che non gli ha impedito di prendersela comoda. Finché un giorno finalmente i due buchi neri sono collassati uno nell’altro, intrecciando le loro mani dopo aver speso la vita a scansare altre stelle mentre si cadevano addosso, sebbene la matematica dica sia impossibile che trovino l’energia per percorrere l’ultimo parsec che li separa.
Pensa che l’esplosione derivata dalla loro collisione è stata così potente, ma così potente, che il suo picco ha sprigionato in una frazione di secondo un’energia dieci volte superiore all’energia luminosa di tutte le stelle del cielo messe insieme. Un’energia così potente che ha viaggiato nello spazio arrivando a colpire la Terra un miliardo e trecento milioni di anni dopo, precisamente il 14 settembre 2015, alle 9 e 50 minuti e 45 secondi, ora di Greenwich.
Ovviamente quel giorno non potevo saperlo, perché la notizia sarebbe stata divulgata solo l’anno successivo; l’11 febbraio 2016, in quello che per me fu semplicemente il decimo compleanno che mio padre non avrebbe festeggiato, la comunità scientifica celebrava la più significativa scoperta del secolo: onde gravitazionali talmente massicce da increspare il tessuto dello spazio-tempo, investendoci a oltre un miliardo di anni luce dal punto di origine. Come se l’esplosione fosse appena avvenuta, abbiamo fotografato due buchi neri che si abbracciavano quando sulla Terra esistevano a malapena gli antenati dei batteri. Perché, bimbo mio, due eventi possono accadere contemporaneamente e a distanza di tempo.
Se nel preciso istante in cui leggi questa frase esplodesse il Sole, tu te ne accorgeresti tra otto minuti. Quello è il tempo che impiega la sua luce per percorrere centocinquanta milioni di chilometri e raggiungere la Terra. Le conseguenze dell’esplosione della nostra stella, per quanto apocalittiche, non potrebbero viaggiare più velocemente di così. E se da te fosse giorno, e non ci fossero nuvole, e ti affacciassi alla finestra, e il Sole fosse già esploso, tu potresti pensare di stare a guardarlo alto nel cielo, ma in realtà staresti guardando una foto del Sole scattata dai suoi raggi otto minuti prima. Gli ultimi otto minuti della tua vita li trascorreresti a farti carezzare il viso dal tuo assassino che è già morto da tempo. Questo pensiero terribilmente magnifico ti dà la misura di quanto siamo piccoli. Non paragonati al Sole o alle altre stelle: piccoli al cospetto del tempo. John Archibald Wheeler una volta disse che il tempo è ciò che impedisce alle cose di accadere tutte in una volta. Avevo diciassette anni quando lo sentii dire per la prima volta in un corso di fisica atomica che seguivo di nascosto: passai quattro mesi a marinare la scuola per sapere come funziona l’orizzonte degli eventi e l’unica cosa che ricordo lucidamente di quel corso è questa citazione. Forse è proprio questo il punto: da qualche parte, in un foglio della realtà, esiste un diverso modo di percepire in cui il tempo è una scatola dentro la quale tutte le cose sono già tutte successe, mischiate e navigabili, sono e non sono. In quella scatola tua madre e io ci siamo innamorati e non ci siamo conosciuti ancora. Da qualche parte in quella scatola ci siamo allontanati mentre le nostre mani si incontravano guardando un film che non riusciamo a ricordare. Abbiamo sposato qualcun altro mentre due buchi neri collassavano l’uno nell’altro e l’esplosione derivante mi mandava in ospedale perché tua madre mi cercasse in una pizzeria nell’unico giorno della mia vita in cui non ho lavorato e potesse capire quanto le mancavo. Da qualche parte lì dentro ci sei tu, che sei e non puoi non essere altrimenti non voglio nessuna scatola, mentre il Sole non esiste più eppure splende in cielo. Perché io tua madre la amerò per sempre e, per citare un autore che piace a lei, a volte per sempre è solo un secondo.

dal web

venerdì 12 marzo 2021

La perdita del reale e l'inaridimento psicologico della persona

di Primavera Fisogni



Premessa

Quando Cartesio ha messo in discussione, passandolo attraverso il dubbio metodico, il fatto che qualcosa fosse piuttosto che nulla, ha trascurato di domandarsi: davvero il mio Io può vivere e fiorire senza l’inclinazione alle cose? Se l’avesse fatto, probabilmente, il suo punto di vista scettico sulla consistenza del reale, che ancora pervade il pensiero filosofico, avrebbe seguito una strada diversa. Dobbiamo soprattutto alla fenomenologia come metodo e sostanza del pensiero filosofico se il principio di realtà è stato riposizionato all’interno del dibattito teoretico, con guadagni interdisciplinari, dalle potenti ricadute interpretative anche nell’ambito delle patologie psicologiche e psichiatriche.

In particolare, è stato portato a tema nella sua complessità il ruolo che il sentire, da intendersi come sentimento della realtà e sentimento del bene, riveste nel forgiare l’identità personale e nella dialettica della volontà. Viceversa, la perdita o l’attutimento del sentire – e cioè lo scollamento dal reale o mondo della vita (Lebenswelt) – produce disastri, sia sull’Io (dimensione psicologica/psichica), sia sulla relazione con gli altri enti (dimensione relazionale), sia nella condotta (dimensione etica). Se il terrorista, figura di grande malvagio dei nostri giorni, si impoverisce volontariamente nell’essere e nell’agire, a partire dal momento in cui assume deliberatamente l’ideologia eversiva, la persona affetta da sofferenza mentale si trova nello stato della malattia per cause che sfuggono il suo controllo. Fattori che possono essere differenti, di ordine biochimico, sociale, genetico o una risultante di essi.

Non è possibile, in questo breve articolo, entrare con profondità nel merito del disagio psichico. Mi propongo soltanto di mostrare alcune risultanze degli studi dello psichiatra fenomenologo Ludwig Binswanger che, muovendo dal pensiero di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, seppe tratteggiare una lettura antropologica della condizione della malattia mentale come espressione di sfioritura e inaridimento della persona, dovuta alla perdita di contatto con il reale. Sulla base di queste intuizioni, corroborate alla luce dei dati clinici, Binswanger fu anche in grado di indicare linee terapeutiche considerate ancora valide.

Forme e caratteristiche del mancato esser-ci (Missglückten Dasein)

Il distorto rapporto con il mondo della vita, originato da fattori non volontari, si dà a vedere come espressione caratteristica delle psicosi. In questo termine si riuniscono le varie forme della sofferenza mentale, dominio di studio relativamente recente della medicina, nonostante le radici antichissime della letteratura psichiatrica. A differenza di quanto succede per altre patologie, gli specialisti delle sindromi psichiatriche hanno stretto una proficua alleanza con la filosofia, a partire dall’inizio del Novecento, in particolare con la fenomenologia. Di questo intreccio multidisciplinare, che continua a dare interessanti frutti investigativi, è intrisa l’opera di Ludwig Binswanger, psichiatra e filosofo, che muovendo dai capisaldi teorici di Husserl (intenzionalità) e Heidegger (essere-nel-mondo), ha indicato alla psichiatria un approccio umanistico-antropologico decisivo. In questa prospettiva esistenziale, per sintetizzare, la malattia mentale non si può intendere unicamente come costellazione di sintomi, ma come espressione di una relazione distorta con le coordinate esistenziali, spazio-temporali e relazionali. L’interesse che rivolgo alle ricerche di Binswanger, che proprio in questi anni vedono in Italia un rilancio di attenzione, sia in campo medico sia nel contesto filosofico, risiede nell’approfondito esame dello stato di perdita della realtà delle persone psicotiche, che lo psichiatra svizzero seppe condurre. Le principali patologie psichiche esaminate da Binswanger (stramberia, mania, melanconia, esaltazione, manierismo, autismo, schizofrenia, schizofrenia), pur nella varietà delle manifestazioni, si inscrivono nelle forme dell’esser-ci mancato.

Nel trattare di Missglückten Dasein lo psichiatra si richiama esplicitamente al Dasein nel senso inteso da Heidegger: il soggetto umano in relazione al mondo in cui si trova “situato”. Binswanger riconduce la sofferenza mentale al rapporto dell’essere umano nel suo rapporto con la realtà; nei termini di uno sfasamento o di una di-versione rispetto al mondo. Poiché il mondo è, in senso heideggeriano, un essere-con, la malattia si riverbera su questo “con”: riguarda perciò le relazioni con altri individui e con le cose, gli “utilizzabili”.

Ciò che sembra accomunare i malati delle diverse patologie psichiche, secondo quanto si rileva dai testi di Binswanger, è l’incapacità di costruire relazioni: di assumere, condividere e praticare quel “con” proprio del mondo ambiente in cui è gettato – heideggerianamente – il Dasein.

Ai malati succede di sganciarsi dalla realtà per vivere in un proprio mondo, che non ha nulla a che vedere con quello reale. Prova ne sia lo stato di “trasalimento” che si prova, ad esempio, al cospetto degli strambi e degli schizofrenici, dovuto alla “man+canza di risonanza”: il malato si dà a vedere – rileva Binswanger – come una corda muta. Capire la malattia, dunque, significa riuscire ad aprirsi un varco in questo spazio, nel tempo speciale in cui il malato scandisce la propria esistenza. Parlare di esser-ci mancato significa anche uscire dalla naturalità del vivere, per assumere l’artificiosità di un mondo “altro”: un atteggiamento in qualche modo sintomatico di quel ri-costruire una realtà a propria misura ora che ci si è sganciati dalle relazioni. Abitare stabilmente nell’esaltazione o nel sogno, questo appartiene a forme patologiche dell’esser-ci.

Perdita dei legami costitutivi trascendentali nelle psicosi

Binswanger, rifacendosi all’antropologia di Husserl, rileva come nelle psicosi vengano a sciogliersi i «legami costitutivi trascendentali» ovvero i «legami costitutivi dell’esperienza naturale». La componente empirica e quella cognitiva non si incontrano più nel baricentro del soggetto, l’Io puro o trascendentale: «ciò che fallisce – scrive lo psichiatra fenomenologo – è l’esperienza naturale perché essa non viene regolata dall’ego puro». È qui che risiede l’intimo scollamento dell’individuo dal mondo: una scissione dal mondo che è scissione interiore, più o meno grave. L’Io trascendentale di Husserl non è l’entità ideale di Kant. Fa “sentire” le cose nella loro concretezza; esso è l’organo della conoscenza fenomenologica, cioè dell’afferramento delle cose nel loro offrirsi: «è un’appercezione pura, fenomenologico-trascendentale – scrive Husserl -, nella quale la coscienza pura giunge a datità»[7]. Una cosa, insomma, è la conoscenza naturale, empirica, un’altra è la conoscenza fenomenologica, resa possibile dall’Io trascendentale. Per dare ancora una volta la parola al fenomenologo:

«(…) dobbiamo contrapporre all’esperienza naturale quella fenomenologica, la quale, in relazione al suo significato specificamente trascendentale (…) si chiama appunto anche trascendentale (…)».

Vediamo come l’esser-ci mancato riveli due aspetti, intimamente collegati: la perdita del mondo e la perdita di se stessi. Binswanger mostra che il fendersi dell’esperienza, il “disunirsi” del mondo, è la condizione peculiare della schizofrenia. È in questo contesto antropologico che Binswanger assume la nozione di angoscia (Angst), tanto centrale nel pensiero di Heidegger, per ricondurla a parola-chiave dell’esser-ci mancato. Lo studioso interpreta l’angoscia come il negativo dell’intenzionalità, come la sua completa negazione o annullamento. Essa è lo «stato di turbamento condizionato dalla natura, nella struttura dinamica trascendentale della vita umano-spirituale».

L’essere fuori dal mondo, da parte del malato, è l’esito di una condizione patologica, non deriva da una decisione. Nella malattia mentale (così come nel caso di ogni altra patologia) ci si trova, non si sceglie di trovarsi: è questa condizione di “gettatezza”, del “trovarsi situati” nel male che avvicina il pensiero di Binswanger a quello di Heidegger. Tuttavia, è su questa stessa base che si misura la distanza delle reciproche asserzioni. Anche il soggetto umano, l’esser-ci di Sein und Zeit si trova gettato in un mondo-ambiente. Rispetto al malato psichico di Binswanger, però, l’individuo ha modo di rendersi conto di questa sua condizione: ad esempio, attraverso l’esperienza dell’angoscia.

Che, lungi dall’essere un disorientamento psicotico, assume il carattere di radicale esperienza conoscitiva del senso del proprio essere nel mondo, essendo – non a caso – collegata alla cognizione della propria fine, a quell’essere-per-la-morte in cui risiede il senso stesso dell’esser-ci. In Binswanger, come abbiamo visto, l’angoscia è invece un disarticolamento dell’individuo: si verifica quando il nostro Io trascendentale non ha più energia, perché si è sganciato dall’Io empirico. L’angoscia ha sempre due facce: da un lato c’è il malato che non riesce a instaurare una relazione e dall’altra la persona che gli si rivolge, che non sa come comunicare, poiché non possiede la “logica”, il “punto di vista” del malato.

Dire che lo schizofrenico o lo strambo siano fuori dal mondo, nonostante «l’interruzione della continuità dell’esperienza», che cosa significa, propriamente? Certamente il malato si trova sganciato dalle relazioni del mondo come appare qui e ora. Tuttavia, se si ammette che il malato “si trova” nella malattia, si deve anche riconoscere che quello è il suo mondo: gli si pone di fronte un nuovo modo di essere situato. Il mondo del malato costituisce l’incognita dello psichiatra e, ad un tempo, secondo quanto afferma Binswanger, il punto di partenza per una possibile guarigione, considerando il recupero della normalità come un ritorno dell’individuo malato al mondo, qui e ora, delle relazioni.

Dalle analisi dello psichiatra svizzero, si evince che l’individuo sofferente si sgancia in modo progressivo e differente dalla realtà: lo schizofrenico sembra essere quello più lontano, mentre lo strambo e il malinconico mantengono un contatto con gli altri, con le cose. Le forme di “mancato esser-ci” corrispondono dunque a differenti mondi del malato.

L’inaridimento del malato: essere nel mondo senza trascendenza

Quello del malato psichico è, nella prospettiva di Binswanger, un essere nel mondo “mancato”, in quanto si dà nella forma della non trascendenza. Una condizione opposta all’essere con e insieme all’essere con altri, riconoscendo la differenza delle altre presenze. Può essere utile, per un’ulteriore chiarificazione di questo importante passaggio, citare le seguenti considerazioni:

«essere nel mondo significa sempre (…) essere nel mondo con i miei simili; essere insieme con le altre “presenze”. Postulando l’essere-nel-mondo come trascendenza, non soltanto si supera la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, non soltanto si colma lo iato tra io e mondo, ma si illumina anche la struttura della soggettività come trascendenza, si apre un nuovo orizzonte di comprensione e si dà un nuovo impulso all’indagine».

Nell’esperienza concreta, una vita senza trascendenza rinvia – secondo Binswanger – all’incapacità di prendere le distanze dalle cose, scoprendosi capace di usare del mondo, di avere relazioni con gli altri. In altri termini, venendo meno queste prerogative, ne risulta mortificato anche il baricentro cognitivo-emozionale dell’essere umano. Si verifica «un soggiogamento del sé da parte del mondo». La persona, verrebbe da aggiungere, si ritrae dal mondo perché viene resa cosa tra le cose, essendo stata spenta la capacità di percepire un distacco dalla realtà. La lezione husserliana dell’Io trascendentale, risultata decisiva per la formulazione di questa tesi, si integra così alla filosofia heideggeriana dell’essere-nel-mondo, al punto che – secondo una recente letteratura critica – lo psichiatra austriaco propone di fatto una terza via nella fenomenologia dell’esistenza.

Che questa sia una condizione di inaridimento, Binswanger lo esplicita impiegando la celebre metafora del “cratere spento”, quando – a proposito della paziente Lola Voss, affetta da sindrome schizofrenica – egli ha l’impressione di trovarsi davanti a una presenza ridotta in cenere e terra, senza più “un punto di sostegno interiore”. Il guadagno teorico, sulla base del metodo fenomenologico della Daseinanalyse, segna una svolta nell’indagine sulla condizione umana, non ancora sufficientemente sondata al di fuori della psichiatria.

Nello studio della sofferenza mentale l’aver rilevato il soggiogamento della persona da parte del mondo, ha portato a una migliore comprensione dell’autismo, stato spesso preludente alle schizofrenie o intrecciato ad esse: il malato non fugge la realtà, chiudendosi come in un bozzolo, bensì ne è in qualche modo assorbito. Un contributo significativo è anche quello di aver rilevato, nelle esperienze del vuoto e della estraneità, i tratti essenziale della sofferenza psichica, la cui radice appartiene però alla condizione umana, al rapporto della persona con il mondo.

Perdita del sentimento della realtà nel malato

Quella descritta da Binswanger è riconducibile alla «sofferenza del non essere (più) se stessi, del non avere più la partecipazione al mondo comune, del vedere bloccate le strutture fondamentali dell’esistenza».

La perdita del sentimento della realtà è un esito possibile, benché estremo, della condizione personale. Due sono i tratti che caratterizzano la vuota condizione della malattia, ovvero il senso di vuoto patito dal malato psichico, cioè 1) la modificazione delle strutture esistenziali e 2) la sofferenza per il mancato appartenere al mondo. Ciò che differenzia il venir meno del sentimento della realtà prodotto dal consapevole ritrarsi dalle relazioni, dal gusto del bene, dall’aprirsi al nuovo e al diverso, così caratteristico – ad esempio – dell’ideologia terroristica, dall’aridità della malattia psichica, consiste nella separazione dal mondo della vita, per fare di sé e delle proprie convinzioni l’unico mondo dotato di validità. E se il malato, secondo Binswanger, perde il contatto con la realtà in quanto ne viene fagocitato e di conseguenza vede scomparire, nella trascendenza dell’altro, la specificità del proprio essere, la persona che si ritrae deliberatamente dal mondo della vita perde in qualche modo il contatto dalla realtà nella prepotente affermazione di se stesso. Per quanto scomposta, disarticolata, violenta o depotenziata, l’azione del malato resta in qualche modo rivolta a un mondo “altro” da quello della non malattia. In un contesto in cui il mondo è irreale, il malato ritiene di muoversi ancora nella realtà.

Il delirio costituisce una fase successiva all’insorgere della malattia: esso si può considerare una reazione al vuoto e al senso di angosciosa indifferenza che, sperimentata, disorienta e annichilisce. Impiegando il linguaggio della metafisica tomistica dell’atto umano, relativo alle dinamiche della volontà, potremmo dire che il malato continua, nel delirio, a mantenere un’inclinazione alle cose, che ricostruisce da sé, nel momento in cui non l’avverte più sul piano reale. Nel sentirsi “cosa tra le cose”, effetto primario a cui conduce l’esperienza del vuoto in casi patologici, il sofferente avverte proprio il venir meno di quel movimento da e verso l’alterità, che Binswanger – richiamandosi a Husserl – definisce “trascendenza dell’Io”. Per quanto una persona con sofferenza mentale possa dirsi messa in scacco dal mondo, tuttavia restano margini di trascendenza – comunque inautentici – anche nell’esperienza delle psicosi, secondo le ricerche di Binswanger. Deliri e allucinazioni ne sono sintomatici. Essi ricreano, anche se non necessariamente, una certa realtà e un certo modo di essere nel mondo. Binswanger dice precisamente che “i malati mentali vivono in un altro mondo”, simile per certi versi a quello che ciascuno sperimenta nel sogno, in uno stato alterato di coscienza: non vi è differenza tra vicino e lontano, alto e basso, importante e non importante”.

Sebbene questa condizione di mancata percezione della differenza tra sogno e realtà susciti inquietudine in chi affianca uno psicotico, Binswanger ha dimostrato che si tratta di una preziosa risposta di sopravvivenza, per contrastare l’esperienza di vuoto prodotta dal “mancato esser-ci”. Ed è, infatti, proprio attraverso questo mondo personale del malato che il terapeuta può tentare di avvicinarsi al paziente, cercando il modo per riportarlo alla realtà.

Il vuoto, come si è visto nel precedente paragrafo, è l’esito del soggiogamento da parte del mondo; si tratta di un’esperienza di disorientamento, di perdita di contatto con gli altri esseri umani e le altre cose, sperimentabile – ad esempio – nell’angoscia, condizione indagata anche dal pensiero filosofico, a riprova della sua originaria consistenza antropologica, prima che “patologica”.

Come succede a campo che si dissecca per il prosciugamento della sorgente, nella quotidianità della persona si verifica l’attutimento del sentire: i sensi si spengono, si erode la capacità di provare empatia per gli altri esseri umani – per altro dolorosamente avvertita in molti casi dai pazienti psicotici –, ci si svuota delle potenzialità comunicative, si vive nella inautenticità, orientando le proprie azioni verso un mondo fittizio. Vuoto e delirio, forme di vita e di comunicazione inautentica, configurano il profilo di questo stato.

L’inaridimento patologico. Conclusioni

Il mio proposito, in questo articolo, è stato duplice. Da un lato ho voluto precisare le peculiarità dell’inaridimento patologico (sofferente psichico), marcandone così la distanza da quello volontario (caratteristico, ad esempio, dell’agire male orientato dall’ideologia terroristica). In secondo luogo, mi sono proposta di cogliere un tratto comune alle due condizioni, vale a dire: l’esperienza del vuoto vissuta e manifestata dalla persona. Formulo, a questo punto l’interpretazione che il vuoto sia il sintomo dell’impoverimento della profondità personale, comune tanto alla patologia quanto alla deliberata negazione del mondo. Come il vuoto ha il suo esito nel delirio, sul piano della patologia mentale, così la perdita di essere si riverbera in un agire non finalizzato, dalla portata senza limiti, irrispettoso. Il vuoto che il malato sperimenta e trasmette ad altri, nella perdita del sentimento della realtà, possiede un proprio specifico, come si è potuto desumere dalla lettura, pur succinta, degli scritti binswangeriani e della letteratura critica proposta in questo articolo.

L’altra indicazione che gli scritti di Binswanger forniscono all’indagine sull’impoverimento interiore riguarda l’esito che il vuoto ha sul piano dell’agire, nella forma del delirio. Il delirio, caratteristica espressione dell’atteggiarsi del sofferente psichico, rinvia all’agire scomposto e de-lirante rispetto al senso e ai valori che è proprio degli eversori. Questa consonanza, sostengo, trova una giustificazione proprio muovendo dagli studi di Binswanger, che – particolarmente sulla scia del pensiero di Heidegger – individuano nel vuoto un sostrato antropologico, cioè una condizione possibile di tutti gli uomini.

L’idea che si impone, nelle ricerche di Binswanger, e può costituire un indubbio motivo di interesse anche per lo studio sulla disumanizzazione dei terroristi è che l’inaridimento della persona si accompagni ad un’erosione del suo essere, la quale si riflette poi sui comportamenti. I fondamentali studi dello psichiatra fenomenologo, nei cui riguardi si sta levando una nuova attenzione in Italia, con convegni e traduzioni delle opere, mi aiutano anche a forgiare la peculiarità dell’inaridimento volontario rispetto a quello patologico: l’uno esprime un distacco dal mondo, l’altro conduce il malato ad essere inglobato nel mondo, una sorta di “cosa” tra le cose. Le due diverse situazioni portano a conseguenze differenti sul piano del recupero della persona allo stato di fioritura.

Se, infatti, il malato ha bisogno di un’alleanza terapeutica per riprendere coscienza di sé in rapporto all’alterità, il terrorista non può che farlo da sé, con un atto di deliberazione, sulla scorta di un nuovo sentire.


Dalla rivista Exagere