domenica 29 agosto 2021

Combattere l'abuso online con i principi della resistenza non violenta

Secondo un recente studio del Pew Research Center, le molestie online sono in crescita. Se da un lato la cosa non sorprende – in fondo persino il presidente degli Stati Uniti le pratica regolarmente – , dall’altro lascia perplessi i ricercatori, se consideriamo i numerosi tentativi messi in atto per contrastare il fenomeno.

Una rassegna di questi tentativi, a cui negli ultimi anni sono stati dedicati diversi libri, può aiutare a comprendere non solo cosa funziona e cosa non funziona, ma anche cosa manca, ovvero un approccio che si basi più sull’empowerment individuale e collettivo piuttosto che sull’azione giuridica e delle forze dell’ordine.

Le molestie online sono un crimine

Il libro “Hate Crimes in Cyberspace” di Danielle Keats Citron (2014) è un resoconto esaustivo sulle molestie online contro le donne. Citron porta tre esempi reali per illustrare quanto il problema sia serio e apparentemente irrisolvibile. In uno di questi esempi, una donna è stata presa di mira da numerosi individui, tra cui forse dei compagni di università, che hanno messo in giro orribili bugie sul suo conto, inviandole ad amici, parenti, insegnanti e poi anche ai suoi datori di lavoro. Le molestie sono durate anni.

Un concetto chiave nel libro è il parallelo tra le molestie sessuali e la violenza domestica. Fino a qualche decennio fa non si dava alcuna importanza a questi fenomeni. Le molestie sessuali sul lavoro erano viste come qualcosa che le donne dovevano semplicemente accettare. Allo stesso modo le violenze domestiche non costituivano agli occhi di tutti un problema sociale. Poi vennero i movimenti femministi: questi fenomeni ricevettero un nome, furono bollati come sbagliati e deplorevoli, e vennero approvate leggi che li criminalizzavano.

Citron sostiene che le molestie online dovrebbero essere trattate allo stesso modo. Tutte queste forme di abuso possono colpire sia gli uomini che le donne, ma nella maggior parte dei casi sono queste ultime ad esserne vittima.

Citron è un’avvocatessa con alle spalle molta esperienza nell’ambito degli abusi online: sebbene nel libro dedichi ampio spazio agli strumenti legislativi, la sua posizione è che rimangano comunque inadeguati, anche quando possono essere applicati. Un’altra via percorribile è il sistema di segnalazioni messo a disposizione dalle piattaforme che erogano il servizio. Tuttavia in molti casi i molestatori sono anonimi e possono cambiare la loro identità virtuale. Bastano pochi minuti, ad esempio, per creare un account su Twitter, perciò chiudere il profilo di un utente può essere solo una soluzione temporanea.

Alcune vittime si rivolgono alle forze dell’ordine, ma spesso rimangono deluse, perché la polizia ha una scarsa comprensione del mondo online. Ad esempio, non riescono a riconoscere l’importanza di Twitter per il lavoro di alcune donne e a capire come i molestatori possano abusare di questo servizio. La polizia a volte suggerisce di stare offline per un po’ per sfuggire agli abusi, ma è un’opzione irrealistica: sarebbe come consigliare di non uscire mai più di casa per non rischiare di essere rapinati.

La misoginia degli abusi online

Emma Jane lavora presso l’Università di New South Wales, Sydney, dove si occupa di molestie online subite dalle donne. Prima di approdare nel mondo accademico era stata per vent’anni una nota opinionista e commentatrice che lavorava sotto il nome di Emma Tom. Prima di Internet, lei e altre donne che erano presenti nel mondo dei media ricevevano abitualmente lettere ostili e minacciose. Qualcosa cambiò negli anni ’90, quando cominciò a inserire il suo indirizzo e-mail alla fine dei suoi articoli. Da allora gli abusi si erano fatti sempre più insistenti, espliciti e prolissi. Non sapendo bene come comportarsi, iniziò a conservarli tutti.

A differenza di molti altri commentatori, Jane riporta molti tra i peggiori esempi di abusi subiti da donne. Ecco perché il sottotitolo del suo libro si riferisce a una storia “brutale”: leggere storie di abusi può turbare anche quando non se ne è vittima. Mostrando esempi espliciti, Jane mette in discussione la pratica consolidata di liquidare queste forme di violenza come una parte normale del web. Se volete avere un’idea del tipo di abusi che le donne ricevono online, fate un giro su Random Rape Threat Generator (contiene linguaggio volgare e offensivo).

Jane presta particolare attenzione anche alla ricerca accademica nel settore, rimproverando gli studiosi quando tralasciano un argomento così importante o quando non lo prendono seriamente. Ad esempio, includere minacce di stupro e di morte nella categoria del “trolling” le fa apparire come frivolezze.

Quando l’abuso viene giustificato

Bailey Poland è una scrittrice ed editrice che ha cominciato a interessarsi di sessismo sul web e ha scritto un volume esaustivo e approfondito dal titolo “Haters: Harassment, Abuse and Violence Online” (2016). Poland si è avvicinata al problema anche in seguito ad attacchi subiti personalmente, ma racconta storie di molte altre donne che hanno ricevuto molestie online.

Alcuni casi hanno suscitato un certo scalpore: tra tutti, quello conosciuto come “Gamergate”. Zoe Quinn, sviluppatrice di videogame, dopo aver ricevuto delle molestie online aveva deciso di denunciare la vicenda. Questo ha provocato, da un lato, un aumento esponenziale degli abusi e delle minacce, e dall’altro la crescita di un movimento a supporto della vittima. Il mondo dei videogame ha una forte predominanza maschile e le donne che vi lavorano sono un facile bersaglio.

Poland si scaglia contro chi cerca di giustificare le molestie online e rivolge alle donne consigli inopportuni. Uno dei mantra che si sentono più spesso è “don’t feed the trolls”1, come se il problema fosse il trolling. Il trolling, al contrario, non è un’accurata descrizione di minacce di stupro o di morte. La pratica di ignorare i molestatori si basa sull’assunto che questi trovino soddisfazione nel veder soffrire la vittima: senza ottenere reazioni, dovrebbero stancarsi del gioco e lasciar perdere. Il problema di questa strategia è che non funziona. Finché la vittima è online il molestatore non molla, e potrebbe diventare sempre più aggressivo mandando abusi, minacce e insulti anche a familiari o datori di lavoro.

(Per un approfondimento sul fenomeno del trolling, si veda il libro “This is why we can’t have nice things” di Whitney Phillips, secondo cui il trolling non può essere affrontato come un problema a sé perché nasce da comportamenti dannosi presenti nella cultura dominante.)

Una delle ragioni che si usano per giustificare l’abuso è che “tutti ricevono molestie”. In altre parole, le donne non dovrebbero lamentarsi perché anche gli uomini sono vittime di violenza; e in ogni caso è così che funziona il web. Poland riporta degli studi secondo cui, sebbene molte persone subiscano molestie, quelle rivolte alle donne sono molte di più e soprattutto sono molto più spesso basate sul genere.

Un altro consiglio tipico è bloccare chi le infastidisce. Il che va benissimo, ma non è una protezione dalle conseguenze negative dell’abuso. Le affermazioni denigratorie postate online possono incidere sulle prospettive di lavoro di una donna, perché molto spesso, prima di assumere una persona, il datore di lavoro cerca il suo nome su Google. Inoltre, bloccare i molestatori richiede del tempo, dal momento che alcuni di loro creano nuove identità ogni giorno.

Chi perpetra molestie online si difende dietro la cortina della libertà di espressione. Sembra che, dal loro punto di vista, inviare frasi offensive senza alcun motivo è un esercizio di libertà, e protestare contro tale esercizio è una restrizione intollerabile. Lasciando da parte il fatto che minacce di morte o di stupro non sono affatto protette dalla legge, una delle conseguenze degli abusi online è che riducono la vittima al silenzio. Anzi, mettere a tacere le donne sembra essere il principale scopo di molti casi di abuso, e questo è un grave limite del diritto alla libertà di espressione delle donne stesse. Se l’obiettivo è una piazza pubblica dove ciascun utente può dire come la pensa, moderazione e rispetto sono cruciali.

Per comprendere come reagire in modo efficace alle molestie online, Poland assume una prospettiva elaborata dalle femministe agli albori del web e detta “cyber-femminismo”. Alcune donne si tutelano regolando le impostazioni sulla privacy. Altre hanno creato dei gruppi chiusi in cui condividono informazioni utili, anche sui molestatori. Altre ancora, ad esempio Lindsay Bottos, contrastano la violenza virtuale con l’arte.

Il compito di reagire agli abusi online però non dovrebbe spettare unicamente alle donne. Poland cita un interessante lavoro di Leigh Alexander che spiega cosa possono fare gli uomini. Il primo passo è impegnarsi a non commettere abusi online. Inoltre, gli uomini possono offrire supporto individuale alle donne, concentrandosi non solo sulla molestia in sé ma sulla vita e sul lavoro delle vittime, e intervenendo online per deviare l’attenzione focalizzata su di loro. Poland generalmente fa riferimento a gruppi di attivisti negli USA, come Working to Halt Online Abuse, End to Cyber Bullying, Crash Override Network e Heartmob.

La psicologia di chi abusa

Citron, Jane e Poland citano degli studi sui tipici perpetratori di violenza, ma mi sembra che possa essere fatto di più per capire cosa li conduce a compiere degli abusi. Non è sufficiente soffermarsi sugli effetti delle loro azioni (ovvero, indurre le donne ad abbandonare gli spazi virtuali) e assumere che questo è il motivo per cui lo fanno. Nel suo libro “Evil: Understaing Human Violence and Cruelty”, Roy Baumeister ha esaminato ciò che si conosce sulla psicologia delle guardie dei campi di concentramento nazisti, dei serial killer e di altri perpetratori e ha concluso che generalmente questi si percepiscono come le vere vittime, sentono di poter giustificare le proprie azioni e non pensano che le loro conseguenze hanno un peso significativo. Se si applica la stessa analisi ai responsabili di molestie online, ciò implica che per questi ultimi mandare minacce di morte o di strupro alle donne non sia un grosso problema e che i destinatari delle loro azioni meritano il trattamento che ricevono. Questo modo di pensare non è molto diverso dalle giustificazioni che vengono usate di solito.

Ma perché le donne sono dei facili bersagli? Una spiegazione si basa sul meccanismo psicologico della proiezione, in cui una persona rifiuta inconsapevolmente una parte del proprio essere o del proprio comportamento e la attribuisce ad altri. Per esempio, un uomo potrebbe rifiutare l’attrazione che prova verso altri uomini, e spaventato da ciò, la proietta sugli uomini gay e qualche volta li attacca.

Tutti hanno nella propria personalità un aspetto maschile e uno femminile. Alcuni uomini potrebbero non voler riconoscere il proprio lato femminile e lo proiettano sugli altri, ovviamente sulle donne, per poi provare a distruggerlo. In questo quadro, le donne potenti e rinomate sarebbero i target più a rischio. Questa prospettiva sembra compatibile con uno schema comportamentale chiamato DARVO – acronimo di “deny, attack, reverse victim and offender”, ovvero negare, attaccare e invertire i ruoli tra la vittima e il colpevole. Secondo questo schema i molestatori negano i propri soprusi, colpevolizzano la vittima e, quando sono criticati, affermano di essere loro ad essere stati lesi. Lo scopo di acquisire una maggiore conoscenza della psicologia di chi abusa gli altri è riuscire a trovare delle risposte più efficaci.

Qualche lezione dall’azione nonviolenta

Per agire contro l’abuso online, cosa possiamo imparare dalla teoria e dalla pratica dell’azione nonviolenta? Non è chiarissimo, perché l’azione nonviolenta implica più comunemente un’azione colletiva negli spazi pubblici contro degli oppositori identificabili. Chi abusa online mira tipicamente a singoli individui, spesso in contesti privati, e molti sono anonimi.

Nonostante ciò, diversi concetti fondamentali di un’efficace azione nonviolenta, come l’agire fuori dal comune, il procurare il danno minore, l’incentivare la partecipazione volontaria e non, l’usare la legittimità, la prefigurazione e la pratica abile ed esperta, sono rilevanti anche per contrastare la violenza online.

Quello che si raccomanda più comunemente è di riportare la violenza online alle autorità, il che è qualcosa che tutte e tre le autrici trovano generalmente inutile. Una reazione ispirata alla pratica della nonviolenza dovrebbe essere qualcosa di diverso, qualcosa che non rientri nei metodi standard. In un’efficace azione nonviolenta, gli attivisti provano a limitare il danno ai propri oppositori. Nel contesto virtuale, questo vuol dire non usare violenza per contrastare la violenza. E comunque sembra che pochi seguano questo metodo. Quando lo fanno, è spesso controproduttivo, come ci si aspetterebbe dalla teoria della nonviolenza.

Durante un’azione nonviolenta, un alto livello di partecipazione accresce di gran lunga l’efficacia. Strategie come scioperi, boicottaggi e manifestazioni permettono a molte persone di partecipare a prescindere da età, sesso e abilità. Ciò implica che nell’ambiente online bisogna scegliere dei metodi di resistenza che permettano una maggiore partecipazione. Un primo passo è che donne (e uomini) colpite si uniscano ad altri alleati per formulare una risposta collettiva, che potrebbe consistere in produrre delle dichiarazioni di supporto, contestare i fornitori del servizio Internet che tollerano la violenza, e sviluppare campagne che consentano una partecipazione sicura.

Uno dei benefici di una maggiore partecipazione all’azione nonviolenta è una maggiore quantità di idee riguardo il modo di reagire e più innovazione nelle tecniche da adottare, specialmente quando sono coinvolte persone con diversi background e varie esperienze. Questo suggerisce che gli attivisti contro la misoginia online dovrebbero tentare di coinvolgere diverse fasce di popolazione, per esempio sia uomini che donne, vecchi e giovani, classi sociali differenti, i nuovi approdati ai social media così come i nativi digitali, e le persone con background culturali differenti. Particolarmente importante è acquisire il supporto delle persone che non sarebbero normalmente interessate ai social media, dove spesso avvengono gli abusi.

Portare la questione all’attenzione di fasce più ampie di popolazione dà la possibilità di raggiungere gli amici (sia online che offline), i vicini di casa, i genitori e i figli dei molestatori. Questa diffusione di interesse è la stessa che è stata utile nello stigmatizzare la molestia sessuale offline.

Un altro aspetto di un’azione nonviolenta efficace è l’uso accorto dei metodi. Rispondere ai molestatori deve essere fatto con criterio, valutando la psicologia dell’aggressore, gli spettatori all’aggressione, la probabilità che altri si uniscano alla violenza o che la contrastino, e altri fattori. Sviluppare delle competenze richiede assistenza e pratica. La vittima ha bisogno di aprire un dialogo con gli altri, ricevere supporto e, in particolare, ottenere l’aiuto nel migliorare le proprie reazioni. Migliorando le competenze nel giudicare le motivazioni, l’intenzione, e la debolezza psicologica dei molestatori, le vittime dovrebbero poi diventare più abili nel valutare se dare una risposta educata, non reagire affatto, chiedere assistenza personale, o cercare aiuto per lanciare una campagna. Allo stesso modo, avere delle competenze può fare una grossa differenza nel rispondere ai bulli, così come nel trovare dei sostenitori e organizzare una campagna.

Fin troppo spesso, le vittime si sentono isolate e umiliate, e cercano di affrontare la situazione da sole. Parlare con gli altri, e il fatto che gli altri siano disponibili e capaci di dare una mano, è fondamentale per mobilitare il sostegno e per optare per scelte e risposte migliori. Le implicazioni che vengono dalle idee dell’azione non violenta applicate all’abuso online sembrano, da un lato, troppo ovvie: coinvolgere più persone, e in più da differenti background; imparare e mettere in pratica delle competenze; lavorare in cooperazione con altri per sviluppare risposte e campagne. Eppure, dall’altro lato, queste implicazioni non sono ovvie per niente, vista la continua attenzione che ci si mette nell’affrontare i problemi attraverso le leggi e attraverso l’azione della polizia, degli erogatori del servizio internet e di altri agenti ufficiali. Invece di cercare le autorità per offrire protezione, potrebbe essere più efficace puntare all’empowerment individuale e collettivo.

Brian Martin, 2 october 2017
Titolo originale: Combating online abuse with the principles of nonviolent resistance

https://wagingnonviolence.org/feature/combating-online-abuse-nonviolent-resistance/

Traduzione di Roberta Lanzi e Fabio Poletto per il Centro Studi Sereno Regis


1Nel gergo del web il “troll” è un utente che si inserisce in uno scambio o discussione con l’unico obiettivo di disturbare, creare scompiglio e attirare l’attenzione. Normalmente usa un linguaggio volgare e offensivo, sostiene posizioni impopolari in quell’ambiente o provoca deliberatamente altri utenti, non perché sia convinto di ciò che dice ma solo per suscitare reazioni e portare confusione nel dibattito. Il motto don’t feed the trolls, letteralmente “non date da mangiare ai troll”, invita a ignorare chi si comporta in questo modo per non dargli soddisfazione e farlo desistere dal suo proposito (NdT).




Fonte: https://serenoregis.org/2017/12/22/combattere-labuso-online-con-i-principi-della-resistenza-nonviolenta-brian-martin/

domenica 13 giugno 2021

Remote viewing – visione a distanza

La visione a distanza è il potere di vedere con la mente, al di là di ciò che la vista fisica può captare naturalmente. È una cosa possibile? Per molti assolutamente no; tuttavia sappiamo che nelle varie culture questo fenomeno è più che noto. Gli sciamani ed altri esponenti di varie tradizioni spirituali posseggono questa capacità, quindi è un qualcosa di conosciuto e documentato, sebbene la nostra scienza abbia, ancora oggi, grande difficoltà ad accettarla, così come avviene per altri fenomeni di tipo paranormale.

La visione a distanza ha invece un solido fondamento scientifico e conferma quanto da migliaia di anni insegnano queste grandi tradizioni spirituali. Quando la mente è calma, entra in connessione con una dimensione che non è più limitata dallo spazio e dal tempo, bensì collegata con la coscienza universale ed unita ad ogni cosa. È lo spazio dell’intuizione, piuttosto che dell’immaginazione.

Questo fenomeno è chiamato chiaroveggenza ed è un termine usato in modo molto ambiguo, oggi lo si chiama visione a distanza per un motivo molto semplice: perché il dipartimento della CIA americana ha voluto rispondere allo spionaggio psichico fatto in Unione Sovietica con gli stessi strumenti, e per non cedere finanziariamente al congresso ha ribattezzato la chiaroveggenza in visione a distanza che è un termine molto più accettabile. Come mai la CIA si è deflorata su questo territorio? La cosa più interessante è che uno Stato che possiede tantissimi mezzi si è affidato a questa capacità umana e lo ha fatto per moltissimi anni spendendo milioni di dollari. Le università americane hanno fatto delle ricerche su questo argomento ed hanno concluso che questo fenomeno esiste. Queste università non hanno solo studiato la visione a distanza, ma anche la telepatia e la telecinesi e ci sono le prove che queste cose funzionano e sono reali. È più facile oggi arrivare a questa constatazione in quanto la fisica più avanzata permette di capire meglio i fenomeni.

” Il segreto è stato rivelato: la visione a distanza esiste, funziona ed è stata sperimentata, provata e utilizzata dai servizi segreti per oltre vent’anni. Le recenti ammissioni del Governo (degli Stati Uniti) riguardanti l’uso di strumenti bellici di carattere metafisico sono una testimonianza cruciale e inconfutabile del fatto che ciò che ho detto adesso è la verità…”

Il Maggiore (dell’esercito statunitense) David Morehouse

” Entrò in trance. E mentre vi si trovava, ci diede delle coordinate geografiche. Zoomammo con le fotocamere satellitari su quel punto, e l’aereo disperso era lì.”

L’ex Presidente statunitense Jimmy Carter, ricordando un’operazione di visione a distanza del 1978 (Schnabel 1997: copertina).

Il ricercatore del paranormale Ingo Swan coniò il termine “visione a distanza” come termine scientifico neutrale per descrivere il processo mediante il quale un osservatore percepisce informazioni su una località distante, servendosi di qualcosa di diverso dai cinque sensi conosciuti. Inizialmente esso si riferiva soltanto alle situazioni in cui l’Esercito degli Stati Uniti si serviva di un protocollo di ricerca minuziosamente disciplinato, ma gradualmente il termine è entrato nell’uso comune per indicare l’abilità di percepire informazioni nascoste o a distanza avvalendosi di mezzi metafisici.



La differenza tra la visione a distanza e l’esperienza extracorporea

Puthoff e Targ scrissero nel loro saggio classico “A Perceptual Channel for Information over Kilometer Distances” (Un canale percettivo per informazioni poste a chilometri di distanza) del 1976 che avevano scelto il termine “visione a distanza” in quanto termine neutrale libero dalle associazioni aprioristiche e dai pregiudizi che caratterizzavano i termini autoscopia (letteratura medica), esteriorizzazione o dissociazione (letteratura psicologica) e proiezione astrale (letteratura dell’occulto). Altri investigatori preferiscono utilizzare il termine neutro “cognizione anomala”.

Tuttavia, esiste ancora una sovrapposizione nell’uso generale dei termini Visione a Distanza ed Esperienza Extracorporea. I ricercatori che volontariamente le sperimentano entrambe sostengono che c’è una differenza tra l’esperienza extracorporea, nella quale l’osservatore percepisce come se fosse fisicamente presente, e la visione a distanza, nella quale l’osservatore è in grado di ottenere, grazie alla chiaroveggenza, tutti i tipi di informazioni riguardanti l’oggetto che non è fisicamente osservabile.

Come afferma Joseph McMoneagle nel suo libro Remote Viewing Secrets (I segreti della visione a distanza) del 2000, l’osservatore a distanza sta seduto in una stanza e descrive percezioni di un oggetto posto in un altro luogo. Sebbene l’osservatore sia in grado di descrivere con precisione quell’altro luogo, non c’è alcun dubbio che questi sia presente nella stanza in cui si trova il suo corpo. Al contrario, nell’esperienza extracorporea, le persone percepiscono di essersi recate in quell’altro luogo e di esservi state presenti in ogni forma tranne che in quella del corpo fisico (McMoneagle 2000: 176177).

La ricerca militare sulla visione a distanza

Per più di vent’anni, le forze militari degli Stati Uniti hanno destinato ogni anno uno stanziamento di settanta milioni di dollari alla ricerca metafisica con particolare riferimento alla “visione a distanza”. Per quanto ciò possa sembrare sorprendente per coloro che hanno poca dimestichezza con i fenomeni metafisici, questo e molto altro è stato fatto e viene fatto tutt’oggi negli Stati Uniti, in Russia e in Cina. La Francia non ha detto nulla in merito, ma possiede la popolazione e la conoscenza metafisica avanzata per far parte del novero dei Paesi che potrebbero praticare la visione a distanza.

Nel suo interessantissimo libro, Remote Viewers The Secret History of America’s Psychic Spies (Osservatori a distanza La Storia Segreta delle Spie Psichiche dell’America) del 1997, Jim Schnabel cita una gran quantità di fonti altamente affidabili, compreso un Presidente degli Stati Uniti, che parlano della realtà della Visione a Distanza applicata ad obiettivi militari. Ecco alcune delle loro affermazioni sbalorditive che hanno già trovato il loro posto nella storia dei fenomeni metafisici:

“Non mi è mai piaciuto fare dibattiti con gli scettici, perché se non si crede che la visione a distanza è reale, allora non si è fatto bene il proprio lavoro.”

Il Generale Maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti Edmund R. Thompson, Assistente Capo dell’Intelligence, 1977-81, Vice Direttore della Gerenza e delle Operazioni, DIA, 1982-84 (Schnabel 1997: copertina).

“Non si può esserne coinvolti senza convincersi che c’è qualcosa”

Norm J., ex alto ufficiale della CIA addetto agli osservatori a distanza (Schnabel 1997: copertina).

“Ci sono stati dei momenti in cui volevano premere bottoni e sganciare bombe sulla base delle nostre informazioni.”

Dott. Hal Puthoff, ex direttore del programma sulla visione a distanza (Schnabel 1997: copertina).

“Entrò in trance. E mentre vi si trovava, ci diede delle coordinate geografiche. Zoomammo con le fotocamere satellitari su quel punto, e l’aereo disperso era lì.”

L’ex Presidente statunitense Jimmy Carter, ricordando un’operazione di visione a distanza del 1978 (Schnabel 1997: copertina).

Negli Stati Uniti, lo Stanford Research Institute è stata la sede in cui furono condotti molti degli esperimenti originari. Il fisico Hal Puthoff era il direttore del Programma sulla Visione a Distanza. Il personale coinvolto in questo programma di proiezione astrale e visione a distanza (secondo Schnabel 1997) comprendeva anche:
  • L’Ammiraglio Stanfield Turner, Direttore della CIA dal 1977 al 1991
  • Il Generale Maggiore Ed Thompson, Assistente Capo del Personale dell’Intelligence dell’Esercito degli Stati Uniti. In particolare, egli era a conoscenza del fatto che i Russi erano in possesso di tecniche avanzate nell’ambito dei fenomeni metafisici, e se ne servivano per motivi di spionaggio militare nella visione a distanza e nell’ipnosi telepatica a lunga distanza
  • Il Sergente Mel Riley (197890)
  • Il Sergente Lyn Buchanan, il Maggiore Ed Dames e il Colonello John Alexander dell’Intelligence dell’esercito e del Comando della Sicurezza degli Stati Uniti
  • L’osservatore remoto di talento Ingo Swann, che fu il primo soggetto a sottoporsi ai test di Puthoff sulle esperienze extracorporee
  • Lo scienziato della CIA Richard Kennet, che collaborò con Pat Price e Hal Puthoff
  • Keith Harary, osservatore a distanza di talento
  • John McMahon, capo dell’Ufficio del Servizio Tecnico della CIA dal 1974 al 1976 e in seguito Vice Direttore della CIA il quale fu uno dei principali sostenitori della visione a distanza e divenne investigatore in prima persona si convinse dell’autenticità della visione a distanza quando sperimentò personalmente questo sbalorditivo fenomeno metafisico
  • Patrick Price, sensitivo di grande talento, la cui visione a distanza era altamente coincidente con quella di Ingo Swann. Price, attraverso la visione a distanza, descrisse con precisione “i dettagli di una installazione segreta del Pentagono nelle colline del villaggio di Sugar Grove, nella Virginia Occidentale…” Fra le sue funzioni segrete c’erano l’intercettazione di telefonate intercontinentali e il controllo dei satelliti spia degli Stati Uniti. Grazie alla sua visione a distanza, Price fu anche estremamente accurato nel penetrare dell’installazione russa del Monte Narodnaya, nella regione remota dei Monti Urali settentrionali. La CIA confermò la precisione della visione a distanza di Price.

In questo campo, il sito Internet più completo, dotato di un gran numero di collegamenti ipertestuali ad articoli giornalistici specialistici e saggi accademici scritti dalle maggiori autorità in materia, è quello di Joseph McMoneagle.

Psychic Warrior

Benché mai utilizzata come fonte primaria di informazioni, dato lo scetticismo di alcuni quadri militari, l`unità Grillflame venne spesso interpellata per la localizzazione di installazioni militari nemiche, rampe missilistiche e sottomarini.

Durante la prima Guerra del Golfo, venne impiegata per individuare il deposito di “armi chimiche” di Saddam Hussein. Naturalmente, quanti più Remote Viewers visualizzavano la stessa cosa, tanto più erano alte le probabilità che la visione fosse corretta. L`esercito, ed in seguito anche la DIA (Defence Intelligence Agency) ritenevano che la Remote Viewing fosse un sistema affidabile ed efficace, tant’è che continuarono a servirsene fino al 1995. In quella data vennero brutalmente cancellati tutti i programmi che prevedevano l`uso di Remote Viewers ed Esper e per prevenire una fuga di notizie sull`argomento (dato il gran numero di specialisti che si ritrovarono licenziati di colpo) la CIA emise un comunicato stampa in cui dichiarava che esperimenti psichici erano stati sì condotti in passato, ma che erano stati interrotti in quanto inefficaci.

Grossa bugia, visto che la Remote Viewing venne usata per quasi un quarto di secolo dai servizi segreti americani. Era efficace, eccome. Probabilmente il vero motivo che causò la cancellazione del progetto Grillflame fu un altro. Forse i servizi erano entrati in possesso di qualche ritrovato tecnologico capace di svolgere lo stesso lavoro degli Esper.

Altre info…

Il Maggiore David A. Morehouse, ufficiale pluridecorato dell’esercito degli Stati Uniti, dal 1987 al 1991 venne assegnato a diversi programmi di alto livello ad accesso speciale nel Comando di Sicurezza dell’Intelligence dell’Esercito degli Stati Uniti e nell’Agenzia per l’Intelligence della Difesa. Nel suo libro del 1996 Psychic Warrior The True Story of the CIA’s Paranormal Espionage Program (Guerriero Metafisico La Storia Vera del Programma di Spionaggio Paranormale della CIA) egli cita delle figure chiave del programma:

Il segreto è stato rivelato: la visione a distanza esiste, funziona ed è stata sperimentata, provata e utilizzata dai servizi segreti per oltre vent’anni. Le recenti ammissioni del Governo (degli Stati Uniti) riguardanti l’uso di strumenti bellici di carattere metafisico sono una testimonianza cruciale e inconfutabile del fatto che ciò che ho detto adesso è la verità. Il governo della nazione più potente di questa terra ha ammesso di essere a conoscenza del fatto che gli esseri umani possono trascendere il tempo e lo spazio per vedere persone, luoghi, cose ed eventi distanti, e che è possibile riferire informazioni ottenute in tal modo. Spero comprendiate il significato di questa informazione (Morehouse 1996).

Morehouse sostiene pure di avere avuto, insieme ad altri osservatori remoti, contatti regolari con esseri dell’Aldilà.

Una delle cose più inquietanti che viene rivelata da questi ex “soldati psichici”, è che tutti, prima o dopo, durante le loro perlustrazioni mentali, videro degli UFO. Quando gli veniva ordinato di localizzare velivoli ad alta quota nel tentativo di rilevare mezzi sovietici, visualizzavano invece oggetti volanti sconosciuti.

Melvin Riley, uno dei primi PSI governativi, rammenta che nel 1988 i suoi superiori gli portarono una foto da studiare. La foto mostrava solamente un oggetto luminoso. Ma una sessione di Remote Viewing rivelò che al suo interno vi erano degli umanoidi e che l`oggetto ora stazionava al di sopra di una centrale di missili nucleari. “Non era nulla di nostro o dei Russi”, disse il Maggiore David Morehouse (altro ex Grillflame).

Quando il gruppo PSI cercò di rintracciare il punto di origine di questi mezzi, videro che provenivano da basi nascoste nella Luna, su Marte e persino nel nostro pianeta. “Non rivelammo neanche ai nostri superiori l`esito di questo Remote Viewing, perché ci avrebbero presi per pazzi”, conclude Morehouse.

Come avviene questa visione a distanza? Non è nulla di magico o particolare ma è misterioso in quanto fino a quando una persona non ci prova, gli sembra un fenomeno incredibile. Bisogna svuotare totalmente la mente, si scende in questo stato di coscienza con una domanda, la cosa importante è di lavorare con l’intuizione e non con l’immaginazione. La cosa straordinaria è che questa capacità ti porta a vedere anche il futuro, cosa che sicuramente non avremmo mai pensato di poter fare solo con la forza della nostra mente, ma che tutti noi ne siamo capaci.

Fonti: https://www.coscienza-universale.com/misteri/remote-viewing-visione-a-distanza/

mercoledì 2 giugno 2021

Infanzia infelice e destino umano

Che cosa hanno in comune uno stupratore, un masochista, un killer seriale, un suicida, un ansioso, un depresso, un alcolista, un tossicodipendente? Apparentemente niente. In realtà questi disturbi, sebbene molto diversi tra loro, hanno un unico, medesimo, comune denominatore: un’infanzia infelice. Infatti i disturbi della sfera psichica, dai più seri a quelli più comuni nonché quei sentimenti di cronica insoddisfazione, di sottile infelicità, e di generale inquietudine trovano tutti la stessa origine nelle relazioni primarie del bambino con i suoi caregivers. Ciò non stupisce affatto, sebbene siano in molti a ‘giurare’ di avere avuto un’infanzia serena e perfetta. Se vi capitasse di leggere la biografia di un personaggio storico o letterario o filosofico troverete ben poche notizie sulla sua infanzia che viene, in genere, riassunta con la più classica delle espressioni, come ‘felice e spensierata’. Certo, l’infanzia dovrebbe essere felice e spensierata, ma purtroppo è sempre più uno stereotipo.
Dicevo poc’anzi che ciò non stupisce poiché viviamo in una cultura ‘Adultocentrica’ nel senso che le istituzioni sociali sono incentrate sulle esigenze ed i bisogni dell’adulto, ignorando quelli dei bambini ‘tanto sono piccoli: cosa vuoi che capiscano’? Non si capisce perché vada rispettata la sensibilità degli adulti e, invece, ignorata la sensibilità del bambino come se quest’ultimo ne fosse del tutto privo.
Ma vi è ormai una mole di studi epidemiologici, di osservazioni cliniche ed empiriche che dimostrano quanto il bambino sia recettivo, sensibile e predisposto ai rapporti interpersonali sin dall’inizio della sua vita. Ma si tratta di conoscenze relegate in un ambito specialistico, come se non riguardassero ‘i nostri bambini’.
In alcuni casi, nei migliori dei casi, le persone sanno che i bambini hanno bisogno di affetto, di cure e sostegno allo sviluppo, ma si tratta di una conoscenza meramente razionale, tanto per essere ‘up to date’ ovvero al passo con i tempi. Costoro ‘predicano bene, ma razzolano male’ nel senso che non mostrano alcuna disponibilità all’ascolto empatico dei propri figli. Ma perché la nostra cultura continua pervicacemente a negare la natura distruttiva dei comportamenti maltrattanti ai danni del bambino il che implica abusi, trascuratezza emotiva ed affettiva.
In effetti vi sono forme sottili di maltrattamento che non sono né appariscenti né eclatanti ma che sono ripetute e col tempo si cumulano. Si tratta del trauma cumulativo evolutivo cui è esposto il bambino dalla figure che dovrebbero proteggerlo e che invece gli infliggono il trauma nell’indifferenza comune e condivisa. Gli effetti nel tempo di questo trauma cumulativo non sono meno carichi di conseguenze cliniche che sono sotto gli occhi di tutti. Si va da forme ansiose e depressive a disturbi di personalità complessi. Ciò che li accomuna è l’inadeguatezza dei genitori e la lor incapacità di amare, offrendo al bambino una “base sicura” da cui emerge, introiettata, la rappresentazione di sé, del mondo e degli altri. Ecco: l’ostacolo maggiore al disvelamento della verità dell’infanzia è proprio questo: Le figure maltrattanti sono coloro che dovrebbero assicurare protezione e conforto, i genitori. Il fatto che siano loro a traumatizzare il bambino è, malgrado le evidenze cliniche e sperimentali, tutt’oggi un tabù che farà delle piccole vittime i futuri carnefici.
Un’infanzia maltrattata genera, a volte, mostri, ma di sicuro genera infelicità e insoddisfazione. Lo scrivente vuole mettere in evidenza le sofferenze dei bambini e rendere manifeste le conseguenze dei maltrattamenti loro inferti sull’intera collettività. Di più. Le esperienze più traumatizzanti non scaturiscono dai disagi ambientali. L’evento più devastante, in quanto fonte primaria di conflitti, è la violenza dei genitori. La necessità di mantenere l’idealizzazione dei propri genitori è da sempre stata un potente deterrente per la comprensione degli eventi causali che originano l’infelicità e la sofferenza. Spesso il dolore connesso a quelle relazioni infelici non può essere elaborato perché sarebbe troppo intollerabile scoprire che i ‘buoni genitori’ sono stati, volenti o nolenti, gli artefici della propria insicurezza e sofferenza. E allora quel silenzio rende l’adulto, ex bambino maltrattato, una sorta di ‘bomba ad orologeria’. Infatti persone stimabilissime commettono i delitti più assurdi e ‘incomprensibili’. Ma ciò che si vuole sottolineare è che se adottiamo l’ottica del trauma evolutivo i ‘delitti’ commessi quanto i ‘sintomi’ psichici e somatici diventano, non solo comprensibili, ma possono costituire il punto di partenza per acquisire una maggiore consapevolezza di sé ed aprirci un mondo nuovo. Senza parlare dei benefici che tutta la collettività ne trarrebbe in termini di realizzazione, pace, condivisione. Non è affatto giusto che la mia ‘cecità’ debba ricadere sulle future generazioni e sulla collettività come atti di teppismo, terrorismo e quant’altro.
L’estensore del presente articolo non è uno ‘specialista’ ma da circa tre settennari di psicoterapia ha effettuato un’autentica discesa agli inferi di un passato dissociato e rimosso fatto di abbandoni ripetuti, di abusi fisici e sessuali, di menzogne spacciate per ‘amore’, dalle persone per cui avevo, come molti, un’autentica venerazione, di traumi relazionali evolutivi, più sottili, ma non meno disturbanti. Quei ‘microtraumi passano ‘inosservati’ anche perché condivisi dalla maggior parte degli adulti minano alla base la sicurezza e la felicità del bambino, dando vita a adulti insoddisfatti, infelici e ad una società autodistruttiva. Il tutto condito anche dall’avallo religioso: Gesù non è il figlio che il padre sacrifica per la nostra redenzione alla stessa stregua in cui il bambino è sacrificato dai suoi stessi genitori i quali si sentono ‘autorizzati’ da Dio stesso dal momento in cui quest’ultimo chiede ad Abramo, per saggiare la sua fede, di immolargli il proprio figlio Isacco? Un padre che immola il proprio figlio è un padre-sadico poiché si arroga il diritto di vita e di morte sul figlio, agnello da macello. Quale è la conseguenza di una simile ‘imposta’ più che ‘proposta religiosa’? E’ questa realtà che ci troviamo a vivere. Non dovremmo meravigliarci se tanti ‘santi’ si identificano con la vittima, il figlio di Dio, nel versante masochistico oppure nel versante sadico nel momento in cui questo stesso santo ‘fustiga (santamente) il suo corpo’ per liberarlo dalla concupiscenza.
Eppure se comprendiamo che la sofferenza patita verrà replicata sui propri figli come oggetti disponibili e non come “soggetti d’amore”, se ne prendiamo consapevolezza attraverso la progressiva elaborazione del male che i nostri genitori ci hanno inflitto “per il nostro bene”, noi ci possiamo liberare dai sintomi psicopatologici vari e da schemi distruttivi ed autodistruttivi. Non ci sarebbe bisogno di ‘proiettare un paradiso e la felicità’ in un ‘mondo altro’ poiché avremmo finalmente compreso che il rispetto delle istanze del bambino è alla base di un’umanità più consapevole non più accecata da difese varie, prima fra tutte: l’idealizzazione dei propri genitori che ostacola il riconoscimento del Male che costoro ci hanno impunemente inflitto. Sembrano ormai maturi i tempi di sondare le cause primarie della sofferenza psicopatologica, senza voler trovare ‘rimedi’ inutili, fermandosi agli ‘effetti’ che queste sofferenze, nutrite del silenzio collettivo, producono sul singolo individuo e sulla collettività di cui è parte. Come già detto sono proprio i traumi ripetuti e sottili che godono della condivisione generale che danno vita a sofferenze, problemi psicologici ed infelicità. A tal fine una strofa di una poesia di Emily Dickinson sembra fare eco a quanto sostenuto in questo articolo “Non a colpi di clava, né di pietra si spezza il cuore; una frusta invisibile, sottile conobbi io, e staffilò la magica creatura fino a che cadde”
Probabilmente è questa sofferenza silente e sottile, per questo più subdola e perniciosa, l’origine della nostra infelicità e la ricerca ‘compulsiva’ di ‘rimedi’ personali non ultimo le dipendenze patologiche da sostanze e senza sostanze, come le dipendenze affettive, che riducono chi ne è affetto a vivere una vita ‘per procura’. questo il più grande ostacolo alla presa di coscienza della “qualità relazionale” delle nostre interazioni primarie e pregresse che informano e mediano le interazioni sociali dell’ hic et nunc: il dolore e il timore connesso alla indisponibilità ed inadeguatezza dei nostri genitori. Diciamolo pure: scoprirsi non amati fa male poiché mette in crisi il normale narcisismo del bambino. Tuttavia, vi invito a fare questo percorso poiché sperimento il benessere e la gioia di vivere che dovrebbe essere appannaggio di ogni uomo. Come ha scritto K.Gibran “Quanto più vi scava il dolore, maggiore sarà la gioia che potrete contenere”. Le stesse difficoltà di modulazione delle emozioni di cui gli ’eccessivi’ scatti di collera, l’odio incomprensibile e la distruttività ne sono la dimostrazione, nascono dalla perdita dell’empatia di cui un recente saggio di B. Choen ci illustra le basi neurofisiologiche compromesse durante l’infanzia dai ‘sottili’ episodi traumatici ripetuti.
Sembra che i media si occupino di ‘cronaca nera’ allo scopo di soddisfare ‘desideri inconfessabili’, mentre le ‘tavole rotonde degli esperti del settore’ avanzano astruse ipotesi sulla genesi del male. Mai ho sentito parlare di maltrattamenti infantili come fattore causale di comportamenti violenti in età adulta.
Perché questa ostinata cecità? La Miller, nei suoi bellissimi saggi, metteva l’accento sul bisogno di preservare l’idealizzazione dei propri genitori e della propria infanzia perché scoprire di non essere stati il centro dell’attenzione affettiva dei propri genitori è carico di dolore cocente e intollerabile.
Eppure, questa profonda perdita e dolore possono, col tempo, essere elaborate e restituirci alla integrità psicofisica originaria, alla gioia di vivere del bambino troppo precocemente sacrificata. Senza contare l’incalcolabile beneficio di un’umanità più consapevole e naturalmente empatica, ormai liberata dai sentimenti di odio e di distruttività. La mia non è utopia né un miraggio. E’ frutto di un’esperienza di cambiamento che ha richiesto, sì, quattro lustri, ma adesso mi ha restituito a me stesso.
Non abbiate paura di riprovare l’antico dolore poiché “quanto più il dolore vi avrà scavati, tanta più gioia potrete contenere”(Gibran, Il profeta)
Concludo menzionando una frase di Einstein che fa proprio al caso nostro:
“ il mondo non è in pericolo perché ci sono persone che fanno del male, ma perché ci sono persone che lasciano fare”.

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giovedì 1 aprile 2021

La sofferenza e la Legge del Karma

Si può ragionevolmente affermare che è l’uomo, non Dio, che è responsabile del male causato dai propri atti, e così l’uomo è soggetto ad essere punito per tali atti. Una visione razionale implica che il bene sia premiato e il male sia ripagato. Questa è la giustizia, e questa giustizia è il minimo che ci si aspetta nel regno di Dio. Le religioni del mondo garantiscono questa giustizia: “quello che si semina si raccoglie” è il loro motto. In India questo viene indicato come la Legge del Karma, che viene adottata da tutti i sistemi della filosofia indiana, ad eccezione del Carvaka. Al fine di affermare la validità della Legge del Karma, non è necessario presupporre l’esistenza di Dio; la Legge del Karma può essere considerata indipendente da Dio, fa parte delle norme del diritto oggettivo dell’esistenza. In realtà, il Buddhismo, il Jainismo, la Mimansa e così via lo accettano favorevolmente in questa forma; anzi lo ribadiscono ancora di più rispetto ai sistemi teistici. Il Buddhismo dichiara: “Si devono raccogliere i frutti della propria azione, buona o cattiva”.

Lo Shivaismo del Kashmir (il Tantra) riconosce la Legge del Karma, come fanno gli altri sistemi, ma l’unicità del suo approccio alla Legge del Karma consiste nella sua enfasi sulla libertà (svatantrya) dell’uomo. Abbiamo già detto che lo svåtantrya (libertà di coscienza) è il principio base dello Shivaismo del Kashmir; il sé individuale gode di questa libertà, anche se in modo limitato. Mettendo l’accento sulla libera volontà della persona, lo Shivaismo del Kashmir pone l’intera responsabilità del male sull’individuo; l’Uno, il Benigno (Shiva), è lasciato fuori da questa responsabilità. Alcuni studiosi dello Âivaismo del Kashmir possono pensare che, poiché l’intera Creazione è il gioco del Signore, il male è anche parte del Suo piano, ma come abbiamo già sottolineato, questa è una visione errata dello Shivaismo del Kashmir. Lo Shivaismo del Kashmir non può e non deve imputare il male a Shiva, che è per Sua natura molto buono e benigno.

La sofferenza, intesa dal punto di vista della Legge del Karma, viene presa in considerazione per due cose. In primo luogo, è la conseguenza della punizione per il male fatto in passato, in secondo luogo, è destinata a correggere e rieducare l’individuo. Ciò implica che la Legge del Karma non sia una legge meccanica, ma intenzionale. Quando una legge è di tipo meccanico, funziona alla cieca. Ad esempio, se metto un dito sul fuoco mi ustiono; questa è una legge meccanica. Ma la Legge del Karma non è così, ha un preciso scopo: riformare e correggere. Noi troviamo nella nostra esperienza del mondo che pochissime persone senza la sofferenza prenderebbero il sentiero giusto. La sofferenza è quanto di meglio c’è per la correzione di coloro che sono malvagi. È la sofferenza che destruttura il nostro ego e ci fa comprendere la necessità di seguire la via del bene. In questo senso la sofferenza è una grande benefattrice. Inoltre, se noi stessi non scegliessimo di migliorarci e purificarci, la sofferenza ci farebbe diventare così forzatamente e noi raggiungeremmo uno stato spirituale di coscienza migliore, degni di ricevere i doni offerti da una vita più elevata.

Se affrontiamo la sofferenza da questo punto di vista, allora Dio non apparirà come un tiranno, ma sarà disponibile a condonare la sofferenza alle Sue creature. Lo Shaiva Siddhanta (lo Shivaismo duale dell’India meridionale) vede la sofferenza come l’espressione dell’amore di Dio per le Sue creature. Proprio come una madre impone la disciplina al suo bambino al fine di correggerlo, così anche la Madre Divina sanziona con la sofferenza le Sue creature in modo tale che diventino giuste, buone e pure. Il poeta Tulasidasa utilizza quest’analogia e dice che proprio come una madre cerca di acquietare le grida impazienti del bambino facendo sì che guarisca dalla malattia, così anche il Signore allevia il suo devoto dal suo ego. Non è per niente che la creatura si confronta con il dolore e la sofferenza.

Una cosa può essere menzionata in questo contesto. La creatura deve soffrire non solo per il male fatto ma anche per il suo essere nella malvagità. Lo stato di essere è più importante dello stato di fare, in quanto il fare naturalmente deriva dall’essere. Colui che è versato nel male ed è cattivo per natura, anche se in realtà non fa alcun male, rischia di essere redarguito. La stessa presenza di una persona malvagia, anche se non sta facendo qualcosa di male, è nauseante. Allo stesso modo una persona buona, anche se non sta facendo nulla, è piacevole e desiderabile. La storia di Marta e Maria nella Bibbia si riferisce alla distinzione di cui sopra. Marta è nello stato del fare, mentre Maria è nello stato dell’essere, e Cristo preferisce Maria a Marta. Anche nello Shivaismo del Kashmir, nella gerarchia dei mezzi (upaya), shambhavopaya, che è correlato con lo stato dell’essere è posizionato più in alto di kriyopaya e anavopaya, che sono stati del fare (l’anavopaya comporta l’attività fisica ed esterna e il kriyopaya riguarda l’attività mentale e interna). Il poeta e mistico Kabir, riferendosi alla distinzione tra “fare” e “essere” dice: “Colui che fa o agisce è mio figlio (cioè, è inferiore a me), e uno che parla semplicemente è mio nipote (è ancora più inferiore a me); ma uno che vive la vita spirituale della coscienza è il mio guru; io preferisco stare con lui”.

L’argomento spesso avanzato contro la Legge del Karma e contro la Provvidenza è che ci sia nel mondo una palese violazione della legge di giustizia distributiva. Nel mondo i malvagi possono prosperare e il virtuoso può soffrire L’eminente psicoanalista Sigmund Freud, dice: “… non è una regola quella che la virtù è ricompensata e la malvagità punita, ma capita abbastanza spesso che il violento, il furbo e il senza scrupoli colga i più desiderabili beni della terra per se stesso, mentre il devoto se ne va via senza niente.” In risposta si precisa che la Legge del Karma ha una spiegazione per questa apparente discrepanza basata sulle azioni passate delle persone coinvolte. Non possiamo negare la possibilità di una simile spiegazione. Inoltre, il fenomeno dei malvagi che prosperano e del virtuoso che soffre ha bisogno di essere analizzata più a fondo e in modo più completo.

A questo proposito, vogliamo ricordare alcuni punti che sono generalmente ignorati nel presentare il dibattito di cui sopra. In primo luogo, può essere che i “cattivi” non siano tutti cattivi e i “buoni” non siano sempre buoni. In secondo luogo, il bilancio finale di dolore e di felicità può essere commisurato al grado di vizio e di virtù della persona coinvolta. Cioè, può essere che il peccatore sia temporaneamente esaltato ma poi a lungo termine debba soffrire, e il virtuoso, nel lungo periodo, trovi la pace e la felicità. Oppure può essere che, nonostante la sua apparente prosperità, la persona peccatrice abbia altri tipi di dolori e sofferenze, la prosperità materiale non è necessariamente indicativa di una vita felice e pacifica. C’è una storia di Guru Nanak che illustra che i ricchi non sono necessariamente felici. Un uomo ricco aveva raccontato confidenzialmente a Nanak che una volta la sua bella moglie si era ammalata gravemente e aveva espresso la sua paura che dopo la sua morte lui avrebbe potuto sposare un’altra donna. Al fine di assicurarla della sua fedeltà il ricco uomo si era evirato. La moglie poi era guarita, ma dato che il marito adesso era sessualmente impedito, aveva iniziato a flirtare con altri uomini. Questo aveva causato un’insopportabile agonia al marito impotente. I ricchi sono a volte le persone più miserabile sulla terra. Alcuni di loro sono inadatti per la ricerca spirituale. Anche Cristo aveva detto: “È più facile per un cammello passare attraverso la cruna di un ago che per un uomo ricco entrare nel Regno di Dio.”

Allo stesso modo possiamo considerare “povera” certa gente che gioisce e fa festa in un modo molto più vivace rispetto ai ricchi. Terzo, i casi in cui l’autentico virtuoso soffre e il peccatore prospera coinvolge le azioni passate, la storia passata che può risalire anche a precedenti nascite. Secondo la Legge del Karma si è tenuti a rimborsare i propri debiti e ad incassare i propri crediti. Se un uomo in seguito è diventato virtuoso, non per questo motivo le sue azioni passate saranno ignorate.

Discuteremo uno per uno i punti di cui sopra. Per quanto riguarda la questione del vizio e della virtù, non è facile stabilire chi è veramente peccatore e chi è veramente virtuoso. È solo guardando nella vita interiore di un individuo e conoscendolo intimamente per un po’ di tempo che si può veramente sapere se è buono o cattivo. Uno che da lontano sembra essere buono e virtuoso, può poi rivelarsi essere altrimenti quando si arriva a conoscerlo bene. Allo stesso modo la persona che sembra un mascalzone può avere certe virtù lodevoli e potrebbe tenere un comportamento più retto e onesto della persona cosiddetta virtuosa.

In genere ci riferiamo agli standards tradizionali della moralità riconosciuti dalla società, dalla legge divina delle scritture e dai leaders religiosi in ordine alla valutazione di ciò che viene considerato vizio o virtù. A volte giudichiamo in base al metro del nostro intelletto e della nostra coscienza. Ma nessuno di questi criteri è assoluto. La storia ha visto molti atti di sopruso e di crudeltà in nome della cosiddetta giustizia sociale e della legge divina. Le sentenze formulate sulla base della coscienza interiore, inoltre, non necessariamente sono oggettive e imparziali; ciò che viene chiamata coscienza o ragione interna può essere il risultato delle influenze (samskara) delle norme esterne che sono entrate nella nostra mente interiore. I nostri giudizi riguardo al vizio e alla virtù sulla base di tali norme possono quindi essere molto errati.

Inoltre, il virtuoso può essere affetto dall’imperfezione molto grave dell’ego. A volte l’ego dei virtuosi danneggia molto di più che il comportamento del comune peccatore. L’ego di una persona lavora in modo più sottile e rende tutte le sue virtù inefficaci. L’ego danneggia se stessi e gli altri. Ecco perché si dice che il Signore non tollera anche il più piccolo granello di ego nel Suo devoto e tende a distruggerlo. I purana sono pieni di storie che raccontano come il Signore distrugge l’ego del Suo devoto facendolo soffrire. Possiamo tranquillamente concludere che se una persona virtuosa avesse l’ego, quella persona non sarebbe affatto virtuosa; l’assenza di ego è la condizione di ogni virtù. Da questo ne discende che chi segue il Signore e il sentiero della rettitudine privo di ego non è sottoposto a sofferenze, ma se lo fa con l’ego rischia di soffrire. Infatti, se si ha ancora il proprio io in realtà non si segue il percorso del Signore.

L’intera storia del Mahabharata descrive in modo molto sottile e geniale, come ognuno sia responsabile della propria sofferenza. Questo aspetto è preso in considerazione per ogni personaggio del poema epico, e il Signore (Krishna), agisce come un esecutore imparziale della legge divina della giustizia. Molte delle storie della mitologia Indù rappresentano questa verità. Nelle storie famose della guerra tra gli dèi (deva) e i demoni (danava o asura), troviamo che il Signore interviene per aiutare gli dèi solo dopo che hanno sofferto per un pò di tempo e sono stati sottoposti ad espiazione. Il Signore non si incarna subito per proteggere le brave persone (sadhu); prima fa in modo che i sadhu soffrano per qualche tempo, in modo che le loro impurità spariscono e loro diventino veramente degni della grazia.

Operativamente il male è contraddistinto secondo due tipologie. Il primo tipo è quello che è facilmente riconoscibile in quanto immorale: furto, omicidio, stupro, disonestà, inganno, tradimento, ingratitudine e così via. Il suo contrario vorrebbe dire: rettitudine, onestà, integrità, veridicità e così via. L’altro tipo di male, che non è facilmente riconoscibile, è l’ego. Si può trovare una persona che è molto onesta, retta, e così via, ma che è allo stesso tempo molto egoica. Il male causato dall’ego infligge agli altri dolore ingiustificabile, simile al male del primo tipo. La Natura, cioè la Legge del Karma, è dunque tenuta a punire l’ego così come è destinata a punire l’immoralità. È abbastanza naturale che una persona egoista, pur rispettando le leggi della morale, debba soffrire proprio come soffre una persona immorale. Un individuo veramente buono e veramente virtuoso è colui che è libero sia dal male della immoralità che da quello dell’egoismo. Una tale persona buona non sarebbe destinata a soffrire, in quanto sarebbe contrario alla legge di Natura e alla Legge del Karma che una persona veramente buona fosse destinata a soffrire.

Così vediamo che nella maggior parte dei casi in cui i “virtuosi” si trovano a soffrire e i “peccatori” a gioire ciò può essere spiegato dal fatto che: (a) il “virtuoso” può non essere davvero virtuoso né il “peccatore” un vero peccatore, e (b) considerando il bilancio complessivo della felicità e della sofferenza, la persona “felice” può non essere veramente felice e la persona “sofferente” può davvero non soffrire più di tanto.

Ancora, ci possono essere casi in cui l’individuo è veramente buono e veramente virtuoso eppure sta soffrendo, e al contrario una persona davvero malefica può essere per il momento molto felice. Tali casi possono essere spiegati solo ricorrendo al concetto di karma passato. La maggior parte del karma viene premiato o punito nella vita corrente; un’azione “orribile” (utkata karma) potrà dare i sui effetti nella medesima nascita, mentre alcuni karma si accumulano e fruttificano nelle nascite future.

Così la teoria della Legge del Karma implica anche la teoria della rinascita. La teoria della Legge del Karma e della rinascita fa sorgere molte domande, ma non è questo il luogo per discutere di tutto ciò. Qui si può semplicemente osservare che la rinascita è un possibile fenomeno che non può essere confutato. Si tratta di una credenza tipicamente Indiana, ma altri l’hanno adottata. Gli antichi Greci credevano nella rinascita. Anche alcuni dei primi padri cristiani credevano nella teoria della rinascita, Origene, per esempio. Fu solo nei secoli successivi che la teoria della rinascita venne ufficialmente disconosciuta e scartata dalla chiesa cristiana. Oggi in Occidente c’è un crescente interesse per la teoria e il fenomeno della reincarnazione.

Per quanto riguarda la questione della sofferenza collettiva e della morte causata da eventi quali incidenti, terremoti, guerre, e così via, potremmo dire che un incidente con conseguente sofferenza collettiva è causato dal karma collettivo delle persone coinvolte. L’azione passata pronta per la fruizione (prårabdha) di ogni persona coinvolta si accumula ad un certo punto e in un certo momento e si traduce in sofferenza collettiva.

La Legge del Karma può essere trascesa. Poiché la Legge del Karma non è meccanica, ma teleologica, possiamo trascenderla e soddisfare così il suo scopo. Lo scopo della Legge del Karma è quello di purificare la persona per renderla buona. Quando diventiamo completamente buoni e puri, siamo esenti dalla pena, così come la punizione di un detenuto viene ridotta per buona condotta. Questo è ciò che si intende per “pentimento”, come menzionato nella Bibbia. Vero e sincero pentimento significa riformarsi internamente e assumere la determinazione di non commettere di nuovo il male. Pentimento significa purificazione del cuore.

L’auto-purificazione completa si realizza in una persona quando si arrende totalmente a Dio, cioè al Sé Superiore, trasformandosi completamente in sintonia con il Sé e così si riallinea alla finalità della Legge del Karma, rendendo giusto che il suo karma passato venga perdonato e distrutto. Le Upanishad dichiarano che quando si realizza il Sé trascendente, i karma della persona diventano inefficaci. Lo stato di realizzazione del Sé, lo jñana (illuminazione), è lo stato di completa auto-purificazione. Pertanto la Gita dice: “Proprio come il fuoco che brucia il combustibile lo riduce in cenere, così anche il fuoco dello jñana (conoscenza e illuminazione) brucia tutti i karma e li riduce in cenere.” Un santo o un saggio raggiunge questo livello di coscienza e quindi si libera dal karma. Il poeta e mistico Kabir dice: “Il santo è l’eroico guerriero che calpesta il dogma del karma e lo trascende”. Tulasidasa fa dire al Signore: “Quando l’anima si trova faccia a faccia con me, il suo karma di innumerevoli nascite viene distrutto.” Trovarsi faccia a faccia con Dio significa completa sintonia con il Sé, il che significa a sua volta completa auto-purificazione, che porta alla trascendenza del karma.

Così vediamo che la legge della trascendenza del karma è così significativa tanto quanto la Legge del Karma stessa. Lo Shivaismo del Kashmir sottolinea la legge della trascendenza del karma, perché la libertà dalla Legge del Karma implica la libertà dell’essere umano consapevole che la sua vera natura è la libertà (svatantrya). Lo Shivaismo del Kashmir sottolinea il potenziale di libertà dell’uomo. La Legge del Karma è il determinismo (niyati) e la trascendenza di questa legge è la libertà dal determinismo. Lo stato di realizzazione del Sé (la realizzazione di Shiva) è lo stato di trascendenza della Legge del Karma e quindi lo stato di libertà.



fonte: http://www.yogaweb.it/tantra/la-sofferenza-e-la-legge-del-karma/

domenica 14 marzo 2021

Un miliardo e trecento milioni di anni fa


Un miliardo e trecento milioni di anni fa. Questo è quello che ti risponderei se mi chiedessi quando è stato che la mamma e io ci siamo innamorati.
Si tratta di una storia stranissima, di quelle vere solo se ci si vuole credere. Un po’ come quegli articoli dell’università di Boston secondo i quali una ricerca dimostra che avere uno dei nostri peggiori difetti sia la prova che siamo geniali. Tipo che se non riesci a svegliarti la mattina sei un genio. O se dici molte parolacce. O se usi sempre gli stessi vestiti. Pare che a Boston facciano solo ricerche per far sentire meno in colpa gli sciagurati. A Boston e in Canada. Sono articoli stranissimi e nel mio personale caso, volerci credere li rende più attendibili.
La storia comincia simultaneamente in tre date diverse.
La mattina del 14 settembre 2015 ebbi un malore. Finii in ospedale. Dal nulla avevo sentito una fitta alla bocca dello stomaco, mi piegai in due, resistetti qualche ora e poi supplicai mia sorella di venire a prendermi per portarmi al pronto soccorso perché non sarei stato in condizione di guidare. Non fui in grado nemmeno di salire in macchina. O di scendere dalla macchina. Fui portato dentro in barella, mi contorcevo e piangevo, mi imbottirono di roba, mi addormentarono e non ricordo altro per un po’.
Tua madre quello stesso giorno si trovava nel ristorante dove lavoravo da sette anni. Durante l’estate appena trascorsa il mio titolare aveva dato lavoro anche a lei e per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti qualche giorno non precisato di diciotto anni prima, la mia migliore amica e io avevamo potuto stare insieme tutti i giorni. Ed era stato bello. Molto. Parlavamo tanto, anche tutta la notte dopo il servizio. Hai presente quelle amicizie che per quanto profonde perdurano solo perché ci si vede una volta al mese perché si idealizza l’altro e poi non sopravvivono a una frequentazione più assidua? Tua madre e io nell’estate del 2015 scoprimmo che i lunghi intervalli tra i nostri incontri negli anni altro non erano stato che un’infinità di tempo buttato via. Venne fuori che le conversazioni al telefono di casa quando eravamo adolescenti non erano state lunghe perché ci sentivamo di rado, erano state brevi perché interrotte dai nostri genitori.
Ancora oggi tua madre e io abbiamo tante di quelle cose da dirci che non smettiamo mai di parlare.
La sua stagione lavorativa comunque era finita e per entrambi era difficile dare un nome alla confusione che quella rinnovata distanza generava. Ci vollero due settimane perché tua madre decidesse di venire a trovarmi a lavoro. E non mi trovò. Per la prima volta da quando ero stato assunto, non ero a lavoro. Ora, dovresti chiedere a lei di spiegarti come questo la fece sentire, è molto brava a raccontare questa parte. Per quanto riguarda me, io seppi successivamente da altri che sbiancò preccupata perché pare che all’epoca avessi fama di uno che va a lavoro anche con la febbre, affrontando orde di clienti voraci bendato e con una mano legata dietro la nuca. A detta di altri. Lei ti dirà che è stato un episodio rivelatore di come la mia assenza la facesse sentire, solo che lo dirà meglio di così.
In ospedale, io chiedevo a mia sorella di telefonare alla mia ragazza per rassicurarla e dirle di non venire da me. Sminuivo le mie condizioni, insistevo che continuasse la sua giornata, le proibivo di preoccuparsi. Era una brava ragazza, non aveva colpe. In tre anni di relazione non le avevo permesso di amarmi nel modo in cui lei avrebbe voluto amare, c’era un limitato numero di cose che sarei stato disposto a condividere di me stesso e se non si è precipitata ugualmente al pronto soccorso è stato solo perché subiva molto e forse troppo le mie argomentazioni, al punto da far sembrare ragionevole anche a me non consentirle di starmi accanto solo perché io avevo appena scoperto che in quel momento accanto avrei voluto qualcun altro.
E se tua madre e io avevamo bisogno di una situazione così estrema per pensarci l’un l’altra in quei termini, quella stessa situazione innescò in me una serie di considerazioni personali che richiesero molto tempo per essere metabolizzate. Fu in quel letto di ospedale che cominciai a farmi la domanda giusta. Ero uno. E attorno a me c’erano altri. C’erano gli amici, c’erano i colleghi, i famigliari, c’era la mia ragazza. Ero uno con altre persone. Negli anni avevo accettato questa mia condizione, il sereno, forse cinico e senza dubbio arrogante convincimento di essere indigesto nella mia completezza ma gradevole a piccoli bocconi. Mi ero fatto andare bene che anche in mezzo agli altri sarei stato per sempre solo, per sempre dando loro quanto bastasse a farli stare bene e tenendo in una stanza le cose di me stesso che credevo avrei capito solo io. E se a chi mi stava accanto non era consentito conoscermi, con paternalistica presunzione avrei accettato di accondiscendere a quelle consuetudini che la società impone secondo le quali a una certa età è auspicabile sposarsi e mettere su famiglia. Pur non sentendone la necessità, se davvero ero uno con qualcuno e quel qualcuno mi voleva bene, era simpatica e attraente, allora perché no? Se la mia ragazza me l’avesse chiesto, io mi sarei sposato esattamente come pochi anni prima era accaduto a tua madre con tuo padre. E per tutta la vita mi sarei accontentato di essere uno con qualcuno piuttosto che uno e basta. Ma se in cattiva sorte e in malattia non era di quel qualcuno che avevo bisogno, allora forse chiedersi perché no era la prospettiva errata. Perché sì? Questo è ciò che tutti dovrebbero domandarsi. Qualsiasi sia la scelta. Non dovremmo scegliere quel lavoro perché no, o quella facoltà perché no. O quella persona. Dovremmo sposare il perché sì. Ancora oggi, bimbo mio, se cerco altro modo per spiegarlo non mi riesce: ero uno. Anche con qualcuno ero uno. Con tua madre ero due.
Voglio essere chiaro: ci sarebbe voluto ancora molto tempo perché capissi di essere innamorato di tua madre. Quello che capii quel giorno fu che esisteva un modo in cui potessi essere me, tutto me, con qualcuno a cui non sembrava disturbare. E se nelle pieghe del suo matrimonio avessi trovato lo spazio per continuare a parlare con la mia migliore amica e essere me almeno in quei momenti, l’unica cosa giusta a cui riuscivo a pensare era lasciare andare la persona a cui non avrei mai, suo malgrado, concesso nulla di simile.
Tante cose successero dopo la fine della mia relazione, ma in buona sostanza se volessi riassumere ti direi che spesi tutti i miei risparmi per partire da solo oltreoceano, e al mio ritorno tua madre mi organizzò una gigantesca festa a sorpresa durante la quale tu che a malapena sapevi parlare mi rimproverasti per aver leccato le candeline sulla torta.
Vedi, per quanto strano ti possa sembrare leggendolo oggi, perché capissimo di dover stare insieme per tua madre e me è stato necessario intraprendere percorsi tortuosi su sentieri per lunghi tratti paralleli e spesso intersecanti, come Kate Beckinsale e John Cusack in un film uscito lo stesso anno in cui presi una cotta per una ragazzina che mi costrinse a non parlare più con lei. Idiota. Io, non la ragazzina. Lei al contrario era piuttosto sveglia se si era accorta con quindici anni di anticipo rispetto a noi che quando tua madre e io parlavamo viaggiavamo su una lunghezza d’onda che il resto del mondo non era attrezzato per captare. Una lunghezza d’onda ben strana perché estromette tutte quelle informazioni che sarebbe difficile considerare ridondanti, tipo quando ci siamo conosciuti e come, o che giorno fosse e che film stessimo guardando quando almeno diciotto anni dopo ci ritrovammo migliori amici con le mani intrecciate per la prima volta e abbiamo pianto. Né tua madre né io ce lo ricordiamo. Ricordiamo però che nella primavera del 1999 attraverso il telefono io sentii tua nonna far cadere una posata al piano di sotto e indovinai che era un cucchiaio. Ho speso due vite a cercare aghi nei pagliai senza sapere che la figlia del contadino l’avevo già trovata, per parafrasare Julius Comroe.
Eppure tua madre e io abbiamo passato quasi vent’anni a gravitarci intorno prima di collassare insieme, proprio come due stelle in un sistema binario ruotano una attorno all’altra per un tempo lunghissimo, ciascuna trasformandosi di per sé senza poter negare di essere influenzata dall’orbita dell’altra, sebbene a tratti sia così lontana che il fulcro attorno a cui ruotano può sembrare indipendente, ma solo perché in realtà si sposta con loro in un effetto fionda inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separa. Ne studiano tante, di stelle così; nel 2017 hanno assegnato il Nobel per la fisica a Kip Thorne, quello che ha scritto la sceneggiatura di Interstellar con Christopher Nolan, per aver studiato due stelle binarie che si sono girate intorno così a lungo da arrivare a trasformarsi in due buchi neri e poi hanno continuato a girarsi intorno anche così, legati da sempre in un destino condiviso che non gli ha impedito di prendersela comoda. Finché un giorno finalmente i due buchi neri sono collassati uno nell’altro, intrecciando le loro mani dopo aver speso la vita a scansare altre stelle mentre si cadevano addosso, sebbene la matematica dica sia impossibile che trovino l’energia per percorrere l’ultimo parsec che li separa.
Pensa che l’esplosione derivata dalla loro collisione è stata così potente, ma così potente, che il suo picco ha sprigionato in una frazione di secondo un’energia dieci volte superiore all’energia luminosa di tutte le stelle del cielo messe insieme. Un’energia così potente che ha viaggiato nello spazio arrivando a colpire la Terra un miliardo e trecento milioni di anni dopo, precisamente il 14 settembre 2015, alle 9 e 50 minuti e 45 secondi, ora di Greenwich.
Ovviamente quel giorno non potevo saperlo, perché la notizia sarebbe stata divulgata solo l’anno successivo; l’11 febbraio 2016, in quello che per me fu semplicemente il decimo compleanno che mio padre non avrebbe festeggiato, la comunità scientifica celebrava la più significativa scoperta del secolo: onde gravitazionali talmente massicce da increspare il tessuto dello spazio-tempo, investendoci a oltre un miliardo di anni luce dal punto di origine. Come se l’esplosione fosse appena avvenuta, abbiamo fotografato due buchi neri che si abbracciavano quando sulla Terra esistevano a malapena gli antenati dei batteri. Perché, bimbo mio, due eventi possono accadere contemporaneamente e a distanza di tempo.
Se nel preciso istante in cui leggi questa frase esplodesse il Sole, tu te ne accorgeresti tra otto minuti. Quello è il tempo che impiega la sua luce per percorrere centocinquanta milioni di chilometri e raggiungere la Terra. Le conseguenze dell’esplosione della nostra stella, per quanto apocalittiche, non potrebbero viaggiare più velocemente di così. E se da te fosse giorno, e non ci fossero nuvole, e ti affacciassi alla finestra, e il Sole fosse già esploso, tu potresti pensare di stare a guardarlo alto nel cielo, ma in realtà staresti guardando una foto del Sole scattata dai suoi raggi otto minuti prima. Gli ultimi otto minuti della tua vita li trascorreresti a farti carezzare il viso dal tuo assassino che è già morto da tempo. Questo pensiero terribilmente magnifico ti dà la misura di quanto siamo piccoli. Non paragonati al Sole o alle altre stelle: piccoli al cospetto del tempo. John Archibald Wheeler una volta disse che il tempo è ciò che impedisce alle cose di accadere tutte in una volta. Avevo diciassette anni quando lo sentii dire per la prima volta in un corso di fisica atomica che seguivo di nascosto: passai quattro mesi a marinare la scuola per sapere come funziona l’orizzonte degli eventi e l’unica cosa che ricordo lucidamente di quel corso è questa citazione. Forse è proprio questo il punto: da qualche parte, in un foglio della realtà, esiste un diverso modo di percepire in cui il tempo è una scatola dentro la quale tutte le cose sono già tutte successe, mischiate e navigabili, sono e non sono. In quella scatola tua madre e io ci siamo innamorati e non ci siamo conosciuti ancora. Da qualche parte in quella scatola ci siamo allontanati mentre le nostre mani si incontravano guardando un film che non riusciamo a ricordare. Abbiamo sposato qualcun altro mentre due buchi neri collassavano l’uno nell’altro e l’esplosione derivante mi mandava in ospedale perché tua madre mi cercasse in una pizzeria nell’unico giorno della mia vita in cui non ho lavorato e potesse capire quanto le mancavo. Da qualche parte lì dentro ci sei tu, che sei e non puoi non essere altrimenti non voglio nessuna scatola, mentre il Sole non esiste più eppure splende in cielo. Perché io tua madre la amerò per sempre e, per citare un autore che piace a lei, a volte per sempre è solo un secondo.

dal web

venerdì 12 marzo 2021

La perdita del reale e l'inaridimento psicologico della persona

di Primavera Fisogni



Premessa

Quando Cartesio ha messo in discussione, passandolo attraverso il dubbio metodico, il fatto che qualcosa fosse piuttosto che nulla, ha trascurato di domandarsi: davvero il mio Io può vivere e fiorire senza l’inclinazione alle cose? Se l’avesse fatto, probabilmente, il suo punto di vista scettico sulla consistenza del reale, che ancora pervade il pensiero filosofico, avrebbe seguito una strada diversa. Dobbiamo soprattutto alla fenomenologia come metodo e sostanza del pensiero filosofico se il principio di realtà è stato riposizionato all’interno del dibattito teoretico, con guadagni interdisciplinari, dalle potenti ricadute interpretative anche nell’ambito delle patologie psicologiche e psichiatriche.

In particolare, è stato portato a tema nella sua complessità il ruolo che il sentire, da intendersi come sentimento della realtà e sentimento del bene, riveste nel forgiare l’identità personale e nella dialettica della volontà. Viceversa, la perdita o l’attutimento del sentire – e cioè lo scollamento dal reale o mondo della vita (Lebenswelt) – produce disastri, sia sull’Io (dimensione psicologica/psichica), sia sulla relazione con gli altri enti (dimensione relazionale), sia nella condotta (dimensione etica). Se il terrorista, figura di grande malvagio dei nostri giorni, si impoverisce volontariamente nell’essere e nell’agire, a partire dal momento in cui assume deliberatamente l’ideologia eversiva, la persona affetta da sofferenza mentale si trova nello stato della malattia per cause che sfuggono il suo controllo. Fattori che possono essere differenti, di ordine biochimico, sociale, genetico o una risultante di essi.

Non è possibile, in questo breve articolo, entrare con profondità nel merito del disagio psichico. Mi propongo soltanto di mostrare alcune risultanze degli studi dello psichiatra fenomenologo Ludwig Binswanger che, muovendo dal pensiero di Edmund Husserl e di Martin Heidegger, seppe tratteggiare una lettura antropologica della condizione della malattia mentale come espressione di sfioritura e inaridimento della persona, dovuta alla perdita di contatto con il reale. Sulla base di queste intuizioni, corroborate alla luce dei dati clinici, Binswanger fu anche in grado di indicare linee terapeutiche considerate ancora valide.

Forme e caratteristiche del mancato esser-ci (Missglückten Dasein)

Il distorto rapporto con il mondo della vita, originato da fattori non volontari, si dà a vedere come espressione caratteristica delle psicosi. In questo termine si riuniscono le varie forme della sofferenza mentale, dominio di studio relativamente recente della medicina, nonostante le radici antichissime della letteratura psichiatrica. A differenza di quanto succede per altre patologie, gli specialisti delle sindromi psichiatriche hanno stretto una proficua alleanza con la filosofia, a partire dall’inizio del Novecento, in particolare con la fenomenologia. Di questo intreccio multidisciplinare, che continua a dare interessanti frutti investigativi, è intrisa l’opera di Ludwig Binswanger, psichiatra e filosofo, che muovendo dai capisaldi teorici di Husserl (intenzionalità) e Heidegger (essere-nel-mondo), ha indicato alla psichiatria un approccio umanistico-antropologico decisivo. In questa prospettiva esistenziale, per sintetizzare, la malattia mentale non si può intendere unicamente come costellazione di sintomi, ma come espressione di una relazione distorta con le coordinate esistenziali, spazio-temporali e relazionali. L’interesse che rivolgo alle ricerche di Binswanger, che proprio in questi anni vedono in Italia un rilancio di attenzione, sia in campo medico sia nel contesto filosofico, risiede nell’approfondito esame dello stato di perdita della realtà delle persone psicotiche, che lo psichiatra svizzero seppe condurre. Le principali patologie psichiche esaminate da Binswanger (stramberia, mania, melanconia, esaltazione, manierismo, autismo, schizofrenia, schizofrenia), pur nella varietà delle manifestazioni, si inscrivono nelle forme dell’esser-ci mancato.

Nel trattare di Missglückten Dasein lo psichiatra si richiama esplicitamente al Dasein nel senso inteso da Heidegger: il soggetto umano in relazione al mondo in cui si trova “situato”. Binswanger riconduce la sofferenza mentale al rapporto dell’essere umano nel suo rapporto con la realtà; nei termini di uno sfasamento o di una di-versione rispetto al mondo. Poiché il mondo è, in senso heideggeriano, un essere-con, la malattia si riverbera su questo “con”: riguarda perciò le relazioni con altri individui e con le cose, gli “utilizzabili”.

Ciò che sembra accomunare i malati delle diverse patologie psichiche, secondo quanto si rileva dai testi di Binswanger, è l’incapacità di costruire relazioni: di assumere, condividere e praticare quel “con” proprio del mondo ambiente in cui è gettato – heideggerianamente – il Dasein.

Ai malati succede di sganciarsi dalla realtà per vivere in un proprio mondo, che non ha nulla a che vedere con quello reale. Prova ne sia lo stato di “trasalimento” che si prova, ad esempio, al cospetto degli strambi e degli schizofrenici, dovuto alla “man+canza di risonanza”: il malato si dà a vedere – rileva Binswanger – come una corda muta. Capire la malattia, dunque, significa riuscire ad aprirsi un varco in questo spazio, nel tempo speciale in cui il malato scandisce la propria esistenza. Parlare di esser-ci mancato significa anche uscire dalla naturalità del vivere, per assumere l’artificiosità di un mondo “altro”: un atteggiamento in qualche modo sintomatico di quel ri-costruire una realtà a propria misura ora che ci si è sganciati dalle relazioni. Abitare stabilmente nell’esaltazione o nel sogno, questo appartiene a forme patologiche dell’esser-ci.

Perdita dei legami costitutivi trascendentali nelle psicosi

Binswanger, rifacendosi all’antropologia di Husserl, rileva come nelle psicosi vengano a sciogliersi i «legami costitutivi trascendentali» ovvero i «legami costitutivi dell’esperienza naturale». La componente empirica e quella cognitiva non si incontrano più nel baricentro del soggetto, l’Io puro o trascendentale: «ciò che fallisce – scrive lo psichiatra fenomenologo – è l’esperienza naturale perché essa non viene regolata dall’ego puro». È qui che risiede l’intimo scollamento dell’individuo dal mondo: una scissione dal mondo che è scissione interiore, più o meno grave. L’Io trascendentale di Husserl non è l’entità ideale di Kant. Fa “sentire” le cose nella loro concretezza; esso è l’organo della conoscenza fenomenologica, cioè dell’afferramento delle cose nel loro offrirsi: «è un’appercezione pura, fenomenologico-trascendentale – scrive Husserl -, nella quale la coscienza pura giunge a datità»[7]. Una cosa, insomma, è la conoscenza naturale, empirica, un’altra è la conoscenza fenomenologica, resa possibile dall’Io trascendentale. Per dare ancora una volta la parola al fenomenologo:

«(…) dobbiamo contrapporre all’esperienza naturale quella fenomenologica, la quale, in relazione al suo significato specificamente trascendentale (…) si chiama appunto anche trascendentale (…)».

Vediamo come l’esser-ci mancato riveli due aspetti, intimamente collegati: la perdita del mondo e la perdita di se stessi. Binswanger mostra che il fendersi dell’esperienza, il “disunirsi” del mondo, è la condizione peculiare della schizofrenia. È in questo contesto antropologico che Binswanger assume la nozione di angoscia (Angst), tanto centrale nel pensiero di Heidegger, per ricondurla a parola-chiave dell’esser-ci mancato. Lo studioso interpreta l’angoscia come il negativo dell’intenzionalità, come la sua completa negazione o annullamento. Essa è lo «stato di turbamento condizionato dalla natura, nella struttura dinamica trascendentale della vita umano-spirituale».

L’essere fuori dal mondo, da parte del malato, è l’esito di una condizione patologica, non deriva da una decisione. Nella malattia mentale (così come nel caso di ogni altra patologia) ci si trova, non si sceglie di trovarsi: è questa condizione di “gettatezza”, del “trovarsi situati” nel male che avvicina il pensiero di Binswanger a quello di Heidegger. Tuttavia, è su questa stessa base che si misura la distanza delle reciproche asserzioni. Anche il soggetto umano, l’esser-ci di Sein und Zeit si trova gettato in un mondo-ambiente. Rispetto al malato psichico di Binswanger, però, l’individuo ha modo di rendersi conto di questa sua condizione: ad esempio, attraverso l’esperienza dell’angoscia.

Che, lungi dall’essere un disorientamento psicotico, assume il carattere di radicale esperienza conoscitiva del senso del proprio essere nel mondo, essendo – non a caso – collegata alla cognizione della propria fine, a quell’essere-per-la-morte in cui risiede il senso stesso dell’esser-ci. In Binswanger, come abbiamo visto, l’angoscia è invece un disarticolamento dell’individuo: si verifica quando il nostro Io trascendentale non ha più energia, perché si è sganciato dall’Io empirico. L’angoscia ha sempre due facce: da un lato c’è il malato che non riesce a instaurare una relazione e dall’altra la persona che gli si rivolge, che non sa come comunicare, poiché non possiede la “logica”, il “punto di vista” del malato.

Dire che lo schizofrenico o lo strambo siano fuori dal mondo, nonostante «l’interruzione della continuità dell’esperienza», che cosa significa, propriamente? Certamente il malato si trova sganciato dalle relazioni del mondo come appare qui e ora. Tuttavia, se si ammette che il malato “si trova” nella malattia, si deve anche riconoscere che quello è il suo mondo: gli si pone di fronte un nuovo modo di essere situato. Il mondo del malato costituisce l’incognita dello psichiatra e, ad un tempo, secondo quanto afferma Binswanger, il punto di partenza per una possibile guarigione, considerando il recupero della normalità come un ritorno dell’individuo malato al mondo, qui e ora, delle relazioni.

Dalle analisi dello psichiatra svizzero, si evince che l’individuo sofferente si sgancia in modo progressivo e differente dalla realtà: lo schizofrenico sembra essere quello più lontano, mentre lo strambo e il malinconico mantengono un contatto con gli altri, con le cose. Le forme di “mancato esser-ci” corrispondono dunque a differenti mondi del malato.

L’inaridimento del malato: essere nel mondo senza trascendenza

Quello del malato psichico è, nella prospettiva di Binswanger, un essere nel mondo “mancato”, in quanto si dà nella forma della non trascendenza. Una condizione opposta all’essere con e insieme all’essere con altri, riconoscendo la differenza delle altre presenze. Può essere utile, per un’ulteriore chiarificazione di questo importante passaggio, citare le seguenti considerazioni:

«essere nel mondo significa sempre (…) essere nel mondo con i miei simili; essere insieme con le altre “presenze”. Postulando l’essere-nel-mondo come trascendenza, non soltanto si supera la scissione tra soggetto e oggetto della conoscenza, non soltanto si colma lo iato tra io e mondo, ma si illumina anche la struttura della soggettività come trascendenza, si apre un nuovo orizzonte di comprensione e si dà un nuovo impulso all’indagine».

Nell’esperienza concreta, una vita senza trascendenza rinvia – secondo Binswanger – all’incapacità di prendere le distanze dalle cose, scoprendosi capace di usare del mondo, di avere relazioni con gli altri. In altri termini, venendo meno queste prerogative, ne risulta mortificato anche il baricentro cognitivo-emozionale dell’essere umano. Si verifica «un soggiogamento del sé da parte del mondo». La persona, verrebbe da aggiungere, si ritrae dal mondo perché viene resa cosa tra le cose, essendo stata spenta la capacità di percepire un distacco dalla realtà. La lezione husserliana dell’Io trascendentale, risultata decisiva per la formulazione di questa tesi, si integra così alla filosofia heideggeriana dell’essere-nel-mondo, al punto che – secondo una recente letteratura critica – lo psichiatra austriaco propone di fatto una terza via nella fenomenologia dell’esistenza.

Che questa sia una condizione di inaridimento, Binswanger lo esplicita impiegando la celebre metafora del “cratere spento”, quando – a proposito della paziente Lola Voss, affetta da sindrome schizofrenica – egli ha l’impressione di trovarsi davanti a una presenza ridotta in cenere e terra, senza più “un punto di sostegno interiore”. Il guadagno teorico, sulla base del metodo fenomenologico della Daseinanalyse, segna una svolta nell’indagine sulla condizione umana, non ancora sufficientemente sondata al di fuori della psichiatria.

Nello studio della sofferenza mentale l’aver rilevato il soggiogamento della persona da parte del mondo, ha portato a una migliore comprensione dell’autismo, stato spesso preludente alle schizofrenie o intrecciato ad esse: il malato non fugge la realtà, chiudendosi come in un bozzolo, bensì ne è in qualche modo assorbito. Un contributo significativo è anche quello di aver rilevato, nelle esperienze del vuoto e della estraneità, i tratti essenziale della sofferenza psichica, la cui radice appartiene però alla condizione umana, al rapporto della persona con il mondo.

Perdita del sentimento della realtà nel malato

Quella descritta da Binswanger è riconducibile alla «sofferenza del non essere (più) se stessi, del non avere più la partecipazione al mondo comune, del vedere bloccate le strutture fondamentali dell’esistenza».

La perdita del sentimento della realtà è un esito possibile, benché estremo, della condizione personale. Due sono i tratti che caratterizzano la vuota condizione della malattia, ovvero il senso di vuoto patito dal malato psichico, cioè 1) la modificazione delle strutture esistenziali e 2) la sofferenza per il mancato appartenere al mondo. Ciò che differenzia il venir meno del sentimento della realtà prodotto dal consapevole ritrarsi dalle relazioni, dal gusto del bene, dall’aprirsi al nuovo e al diverso, così caratteristico – ad esempio – dell’ideologia terroristica, dall’aridità della malattia psichica, consiste nella separazione dal mondo della vita, per fare di sé e delle proprie convinzioni l’unico mondo dotato di validità. E se il malato, secondo Binswanger, perde il contatto con la realtà in quanto ne viene fagocitato e di conseguenza vede scomparire, nella trascendenza dell’altro, la specificità del proprio essere, la persona che si ritrae deliberatamente dal mondo della vita perde in qualche modo il contatto dalla realtà nella prepotente affermazione di se stesso. Per quanto scomposta, disarticolata, violenta o depotenziata, l’azione del malato resta in qualche modo rivolta a un mondo “altro” da quello della non malattia. In un contesto in cui il mondo è irreale, il malato ritiene di muoversi ancora nella realtà.

Il delirio costituisce una fase successiva all’insorgere della malattia: esso si può considerare una reazione al vuoto e al senso di angosciosa indifferenza che, sperimentata, disorienta e annichilisce. Impiegando il linguaggio della metafisica tomistica dell’atto umano, relativo alle dinamiche della volontà, potremmo dire che il malato continua, nel delirio, a mantenere un’inclinazione alle cose, che ricostruisce da sé, nel momento in cui non l’avverte più sul piano reale. Nel sentirsi “cosa tra le cose”, effetto primario a cui conduce l’esperienza del vuoto in casi patologici, il sofferente avverte proprio il venir meno di quel movimento da e verso l’alterità, che Binswanger – richiamandosi a Husserl – definisce “trascendenza dell’Io”. Per quanto una persona con sofferenza mentale possa dirsi messa in scacco dal mondo, tuttavia restano margini di trascendenza – comunque inautentici – anche nell’esperienza delle psicosi, secondo le ricerche di Binswanger. Deliri e allucinazioni ne sono sintomatici. Essi ricreano, anche se non necessariamente, una certa realtà e un certo modo di essere nel mondo. Binswanger dice precisamente che “i malati mentali vivono in un altro mondo”, simile per certi versi a quello che ciascuno sperimenta nel sogno, in uno stato alterato di coscienza: non vi è differenza tra vicino e lontano, alto e basso, importante e non importante”.

Sebbene questa condizione di mancata percezione della differenza tra sogno e realtà susciti inquietudine in chi affianca uno psicotico, Binswanger ha dimostrato che si tratta di una preziosa risposta di sopravvivenza, per contrastare l’esperienza di vuoto prodotta dal “mancato esser-ci”. Ed è, infatti, proprio attraverso questo mondo personale del malato che il terapeuta può tentare di avvicinarsi al paziente, cercando il modo per riportarlo alla realtà.

Il vuoto, come si è visto nel precedente paragrafo, è l’esito del soggiogamento da parte del mondo; si tratta di un’esperienza di disorientamento, di perdita di contatto con gli altri esseri umani e le altre cose, sperimentabile – ad esempio – nell’angoscia, condizione indagata anche dal pensiero filosofico, a riprova della sua originaria consistenza antropologica, prima che “patologica”.

Come succede a campo che si dissecca per il prosciugamento della sorgente, nella quotidianità della persona si verifica l’attutimento del sentire: i sensi si spengono, si erode la capacità di provare empatia per gli altri esseri umani – per altro dolorosamente avvertita in molti casi dai pazienti psicotici –, ci si svuota delle potenzialità comunicative, si vive nella inautenticità, orientando le proprie azioni verso un mondo fittizio. Vuoto e delirio, forme di vita e di comunicazione inautentica, configurano il profilo di questo stato.

L’inaridimento patologico. Conclusioni

Il mio proposito, in questo articolo, è stato duplice. Da un lato ho voluto precisare le peculiarità dell’inaridimento patologico (sofferente psichico), marcandone così la distanza da quello volontario (caratteristico, ad esempio, dell’agire male orientato dall’ideologia terroristica). In secondo luogo, mi sono proposta di cogliere un tratto comune alle due condizioni, vale a dire: l’esperienza del vuoto vissuta e manifestata dalla persona. Formulo, a questo punto l’interpretazione che il vuoto sia il sintomo dell’impoverimento della profondità personale, comune tanto alla patologia quanto alla deliberata negazione del mondo. Come il vuoto ha il suo esito nel delirio, sul piano della patologia mentale, così la perdita di essere si riverbera in un agire non finalizzato, dalla portata senza limiti, irrispettoso. Il vuoto che il malato sperimenta e trasmette ad altri, nella perdita del sentimento della realtà, possiede un proprio specifico, come si è potuto desumere dalla lettura, pur succinta, degli scritti binswangeriani e della letteratura critica proposta in questo articolo.

L’altra indicazione che gli scritti di Binswanger forniscono all’indagine sull’impoverimento interiore riguarda l’esito che il vuoto ha sul piano dell’agire, nella forma del delirio. Il delirio, caratteristica espressione dell’atteggiarsi del sofferente psichico, rinvia all’agire scomposto e de-lirante rispetto al senso e ai valori che è proprio degli eversori. Questa consonanza, sostengo, trova una giustificazione proprio muovendo dagli studi di Binswanger, che – particolarmente sulla scia del pensiero di Heidegger – individuano nel vuoto un sostrato antropologico, cioè una condizione possibile di tutti gli uomini.

L’idea che si impone, nelle ricerche di Binswanger, e può costituire un indubbio motivo di interesse anche per lo studio sulla disumanizzazione dei terroristi è che l’inaridimento della persona si accompagni ad un’erosione del suo essere, la quale si riflette poi sui comportamenti. I fondamentali studi dello psichiatra fenomenologo, nei cui riguardi si sta levando una nuova attenzione in Italia, con convegni e traduzioni delle opere, mi aiutano anche a forgiare la peculiarità dell’inaridimento volontario rispetto a quello patologico: l’uno esprime un distacco dal mondo, l’altro conduce il malato ad essere inglobato nel mondo, una sorta di “cosa” tra le cose. Le due diverse situazioni portano a conseguenze differenti sul piano del recupero della persona allo stato di fioritura.

Se, infatti, il malato ha bisogno di un’alleanza terapeutica per riprendere coscienza di sé in rapporto all’alterità, il terrorista non può che farlo da sé, con un atto di deliberazione, sulla scorta di un nuovo sentire.


Dalla rivista Exagere 

martedì 2 febbraio 2021

Il vero significato delle tre scimmie sagge


Tutti conoscono l’iconografia delle tre scimmiette sagge che si chiudono rispettivamente gli occhi, le orecchie e la bocca, ma in pochi sono al corrente del suo vero significato. Oggi è considerata una metafora dell’ipocrisia umana ma in realtà si tratta di un invito a non concentrarsi su ciò che è negativo ma elevarsi a vedere, sentire e dire ciò che di bello illumina la vita.

Le Tre Scimmiette sagge sono le guardiane del santuario di Toshogu a Nikko, costruito nel 1617, uno dei più importanti del Giappone. La statua, che campeggia all’entrata del tempio shintoista, rappresenta una saggezza antica, che risale fino a 2500 anni fa: un saggio codice di condotta seguito dalle più alte civiltà in Cina, India e Giappone. Il cuore di questa saggezza, rappresentato appunto dalle tre scimmiette sagge, può essere riassunto in tre fasi: non parlare del male (Iwazaru), non vedere il male (Mizaru), non sentire il male (Kikazaru).

Poche immagini hanno valicato tante frontiere e secoli per arrivare intatte fino a noi, con la forza di un simbolo. Tant’è vero che le tre scimmiette le ritroviamo anche sotto forma di emoticon nelle varie chat messe a disposizione dai social.

Ma come spesso accade con le icone, vuoi per disinformazione, vuoi per ignoranza, succede che il significato originario viene distorto, alterato, modificato, per mescolarlo ad altri concetti o interpretazioni che si allontanano dalla radice originale.

Infatti, il senso comunemente attribuito alle tre scimmiette è diverso da quello originale. Viene inteso come un’esortazione a non impicciarsi negli affari altrui, diventa una regola da adottare: non sento, non parlo, non vedo. Una regola che affonda le sue radici in molte culture popolari e la troviamo espressa anche in proverbi come “chi si fa i fatti suoi, campa cent’anni”. Viene così occultato quel messaggio nobile e autentico che consiste nel non parlare del male, non vedere il male e non sentire il male.

Alcuni considerano tali massime un retaggio del servilismo orientale. Ma queste considerazioni sono dovute al lavaggio del cervello subito dalle popolazioni occidentali negli ultimi secoli. Tra l’altro esiste un interessante parallelismo tra le tre scimmiette sacre e una storia attribuita al filosofo Socrate. Una storia nella quale si narra di come un suo allievo fosse entrato un mattino in casa sua, ansioso di raccontargli ciò che aveva sentito dire. Dinanzi all’impazienza dell’uomo, il saggio ateniese gli spiegò che prima di rivelargli quella notizia, doveva superare l’esame dei tre filtri (setacci).

Un giorno Socrate fu avvicinato da un uomo in piena agitazione che gli disse:
« Ascolta Socrate, ti devo raccontare qualcosa d’importante sul tuo amico.»
« Aspetta un attimo», lo interruppe il saggio, «hai fatto passare ciò che mi vuoi raccontare attraverso i tre setacci?»
« Tre setacci?», chiese l’altro meravigliato.
« Sì, mio caro, vediamo se ciò che mi vuoi raccontare passa attraverso i tre setacci.
Il primo setaccio è quello della verità: sei convinto che tutto quello che mi vuoi dire sia vero?»
« In effetti no, l’ho solo sentito raccontare da altri.»
« Ma allora l’hai almeno passato al secondo setaccio, quello della bontà? Anche se quello che vuoi raccontare non è del tutto vero, è almeno qualcosa di buono?»
L’uomo rispose esitante: «Devo confessarti di no, piuttosto il contrario…»
« E hai pensato al terzo setaccio? Ti sei chiesto a che serva
raccontarmi queste cose sul mio amico?
Serve a qualcosa?»
« Beh, veramente no…»
« Vedi?», continuò il saggio, «Se ciò che mi vuoi raccontare non è vero, né buono, né utile,
allora preferisco non saperlo e ti consiglio di dimenticarlo.»
(Tratto dal libro “La via del guerriero di Pace” di Dan Millman)


Come potete intuire, questi tre filtri hanno molto a che vedere con i profili che rappresentano le tre scimmiette del tempio di Toshogu. Si tratta sempre di saggezza, anche se espressa in una versione differente. Le tre scimmiette nel non parlare del male, nel non vedere il male e nel non sentire il male non ci invitano certo all’omertà, o a ignorare le malefatte presenti nel mondo, ma ci spingono a un retto comportamento. Il concetto suggerito è molto semplice: l’uomo ha il potere di aprire o chiudere a proprio piacimento tanto le porte della percezione quanto quelle dell’espressione. Si tratta di libero arbitrio. E non solo. Per mezzo dell’autocontrollo e della disciplina derivanti dalle scelte fatte, l’uomo può regolare la qualità e l’intensità dei flussi sensoriali. Di ciò che percepiamo, che entra nel nostro corpo e di ciò che manifestiamo, che proiettiamo all’esterno.

È un invito alla prudenza quelle delle tre scimmiette sagge. Ti dicono: fai attenzione alle tue parole, tappati le orecchie di fronte a ciò che non serve o non aiuta, copriti gli occhi dinanzi a ciò che ti danneggia. In altre parole è anche un invito a cercare ciò ti fa stare bene e ti rende felice. E noi occidentali non è forse proprio questa capacità che abbiamo smarrito? La capacità di cercare e vedere il bello della vita? Ci siamo fatti convincere che il simbolo delle tre scimmiette sagge rappresentasse un’azione per ignorare la cattiva condotta altrui, evitando di denunciarla a chi di dovere o raccontarla al prossimo.

La verità è che chiudere un occhio sulla cattiva condotta di qualcuno non è il vero, autentico e originale significato del simbolo. Si tratta di un falso e corrotto “sostituto”. Perché, quindi, falsificare un messaggio così nobile? Perché non rivelare questa semplice filosofia, che se adottata in massa, permetterebbe alla gente di voltare le spalle alla negatività distruttiva che ci attanaglia da mattina a sera? Oltre a proteggere gli occhi dalle immagini e dalle impressioni che non sono costruttive per la propria crescita spirituale.

E tu, lettore, ti sei mai chiesto del perché i mass media incanalano sempre più violenza verso le nostre menti? Perché nei Tg, come nei programmi di cronaca, sui giornali e ora attraverso i social, veniamo bombardati dal male, dalla bruttezza, dalla violenza e dalla paura in ogni istante? Perché un testa sgozzata fa più notizia di una vita salvata? Perché i videogiochi più venduti e ricercati dai giovani sono quelli “violenti”? Perché la musica in generale sta diventando anch’essa sempre più violenta? E soprattutto, dopo che hai visto e sentito queste notizie, come ti senti? Quali sono le tue reazioni? Da dove proviene tutta questa rabbia e quest’odio che c’è in giro?

Te lo dico io. Viene proprio da quello che vedi e senti. Il Male viene indirizzato su di te, quelle notizie si riversano su di te e presto, senza che tu nemmeno te ne accorga, diventerai te stesso una persona violenta. E se non è una violenza fisica, può essere una violenza verbale, o di pensiero. Giudicherai e condannerai. Come Ponzio Pilato.

Signori miei, abbiamo capovolto la saggezza, dal “non vedere il male”, “non sentire il male” e “non parlare del male”; la massima è stata convertita – pervertita – nel “vedi il male”, “ascolta il male”, “parla del male”. Ed eccoci qui, con la nostra spiritualità arida e spicciola. Siamo talmente saturi di male che siamo pronti a morderci l’uno con l’altro.

Il male che assorbiamo quotidianamente è molto più dannoso di quel che possiamo immaginare. E soprattutto, sta avendo degli effetti devastanti. È un loop continuo. Veniamo costantemente esposti a mali terribili, anche quando siamo a tavola, con la Tv accesa. Momenti che dovrebbero essere delle pause di pace, armonia, risate, e invece siamo lì, bombardati tra un notiziario e l’altro, da immagini criminose e violente. E alla fine.. “si parlerà del male”.

La gente non può farne a meno, ha bisogno di immagini violente, che si tratti di violenza verso persone, animali o catastrofi naturali, poco importa, l’importante che siano immagini d’impatto. Più lo sono e meglio è. Se poi possono essere condivise sui social, ancora meglio. La gente vuole partecipare, vuole parlare e divulgare il male, diventano co-autori volontari verso la canalizzazione della violenza. Non per loro scelta, ma perché credono sia normale, essendo nati e cresciuti in questo sistema. Le persone non si rendono più conto che tutta questa cattiveria e questo male che vengono trasmessi, raggiungono uno scopo ben preciso e che ormai è sotto gli occhi di tutti. Masse schiavizzate, sottomesse e impaurite.

Ecco perché prima ho scritto quella parola “magica” che si chiama libero arbitrio. È arrivato il momento di scegliere arbitrariamente come e con cosa nutrirsi, quali impressioni portare dentro e cosa distribuire fuori. Come ci spiega quel gran maestro di Gurdjieff:

“[…]L’organismo umano riceve tre tipi di nutrimento:
1° II cibo che mangiamo.
2° L’aria che respiriamo.
3° Le nostre impressioni.
Non è difficile capire che l’aria è un genere di alimento per l’organismo, ma può apparire difficile, a prima vista, comprendere come le impressioni possano essere un nutrimento.
Dobbiamo tuttavia ricordarci che con ogni impressione esterna, sia che prenda la forma di suono, di visione, di odore, noi riceviamo dall’esterno una certa quantità di energia, un certo numero di vibrazioni; questa energia che dall’esterno penetra nell’organismo è un nutrimento.” – Tratto da “Frammenti di un Insegnamento sconosciuto”

Con cosa nutrirci, è scelta del tutto personale. Vuoi nutrirti con del “bene” come suggeriscono le tre scimmiette sagge, o vuoi nutrirti con del “male” a oltranza, come fa la maggioranza della gente. Là fuori è pieni di impressioni. Basta saper scegliere. La saggezza delle tre scimmiette è tutta in questa scelta.

Dobbiamo quindi riscoprire il vero significato delle tre scimmiette sagge, per elevarci a vedere, sentire e dire ciò che di bello illumina la vita. Ma dobbiamo sperimentarlo nella nostra quotidianità, non solo a parole. Le parole servono per portare alla riflessione, ma la riflessione bisogna poi trasmutarla in azione per ottenere una concreta efficacia.


A te, che pensi che mondo sia tutto un disastro, che la vita, nella sua espressione più ampia, sia solo un’accozzaglia di crudeltà, miseria e sofferenza dico: alza gli occhi e guardati attorno.

Guarda i colori della natura che brillano dopo un temporale. Osserva il volo di una farfalla e tutte le sfumature con cui colora il vento. Senti il tepore del sole sul viso, il tocco umido della pioggia sulla pelle, il sapore della neve che gocciola sulla lingua.

Se hai scordato com’è fatto un tramonto, esci questa sera stessa e corri ad ammirarlo. Portati dietro un calice di vino e celebralo per quello che è: un prodigio della natura. Fai in modo che la tua vita contempli un congruo numero di albe e tramonti, di nuotate in piena notte, di cieli gonfi di stelle osservati distesi su un prato, di camminate a piedi nudi sull’erba gravida di rugiada.

Trova il tempo per contemplare tutti i miracoli dell’esistenza, perché passa dalle piccole cose la strada che conduce alla grandezza.”

Dal mio libro “Schiavi del Tempo”

Tenete bene a mente l’insegnamento delle tre scimmiette sagge, punite la perversione e tenetevi stretta la luce, la nobiltà d’animo e tutto ciò che può rendervi delle persone migliori. Bisogna essere prudenti quando si parla, saggi quando si ascolta e abili quando c’è da decidere dove posare il nostro sguardo. E ricordatevi che il male si sviluppa come un cancro, ma una volta isolato, morirà da solo.