domenica 29 dicembre 2019

La natura dell'odio

C'è una pagina di Victor Hugo, in uno ei suoi romanzi meno conosciuti e più ingiustamente criticati, che possiede una capacità di scavare nei meandri dell'animo umano con sottigliezza veramente superba. È quella in cui, ne L'homme qui rit, delinea la figura di un oscuro faccendiere che vive all'ombra della sua benefattrice, lady Josiane: un certo Barkilphedro, satanica incarnazione della banalità del male.

"C'è una cosa che preme sopra tutte: mostrarsi ingrati.
"Barkilphedro si guardò bene dal non esserlo.
"Avendo ricevuto quel po' po' di benefici da Josiane, non ebbe, naturalmente, che un pensiero: vendicarsene.
"Aggiungiamo che Josiane era bella, formosa, giovine, ricca, potente, illustre, e che Barkilphedro era brutto, piccolo, vecchio, povero, abbandonato, oscuro. Bisognava pure che si vendicasse anche di ciò.
"Quando non si è fatti che di tenebre, come ammettere tanta luminosità?
"Barkilphedro era un irlandese che aveva rinnegato l'Irlanda: brutta razza.
"Barkilphedro non aveva che una cosa in favor suo: il fatto che aveva un ventre enorme.
"Ora, una grossa pancia è considerata un segno di bontà. Quel ventre, però, si aggiungeva all'ipocrisia di Barkilphedro, ché quell'uomo era molto cattivo.(…)
"Lo scavo era fatto. La termite era riuscita.
"Barkilphedro avvicinava la regina.
"Non aveva mai ambito ad altro.
"Per fare la sua fortuna?
"No..
"Per disfare quella degli altri.
"Felicità più grande.
"Nuocere è gioire.
"Avere in sé un desiderio, vago ma implacabile, di nuocere, e non perderlo mai di vista, non è da tutti. Barkilphedro questo pensiero dominante l'aveva.
"Il suo pensiero aveva la presa tenace come i denti del mastino.
"Sentirsi inesorabile gli procacciava una specie di cupa soddisfazione. Purché avesse una rendita sotto i denti, o nell'animo la certezza di far del male, non desiderava altro. Era contento di tremare dal freddo, nella speranza che altri gelasse.
"Essere cattivo è una ricchezza grande. Taluno che è ritenuto povero, ed è povero infatti, ha tutta la sua ricchezza in malvagità, e la preferisce così. Tutto sta nel gaudio che se ne ricava. Giocare un brutto tiro, che è poi lo stesso che giocarne uno buono, è assai più che avere danaro. Brutto è per chi lo soffre; per chi lo fa è buono. Katesby, il collaboratore di Guy Fawkes nel complotto papista delle polveri, diceva: - veder saltare il Parlamento! Non darei una soddisfazione simile neppure per un milione di sterline.-
"Che cos'era Barkilphedro? Ciò che c'è di più meschino e ciò che c'è di più terribile. Un invidioso.
"L'invidia è una cosa che trova sempre il modo di collocarsi, a corte.
"La corte abbonda di impertinenti, di sfaccendati, di ricchi fannulloni affamati di pettegolezzi, di cercatori di aghi nei fasci di fieno, di facitori di miserie, di burloni burlati, di ingenui di spirito, che hanno bisogno della conversazione di u invidioso.
"Che ristoro sentir parlar male egli altri!
"L'invidia è una stoffa ottima per fare una spia.
"Esiste una profonda analogia tra l'invidia, passione naturale, e lo spionaggio, funzione sociale. La spia caccia per conto terzi, come il cane; l'invidioso caccia per suo proprio conto, come il gatto.
"Un 'io' feroce: l'invidioso è tutto qui.
"Altre qualità: Barkilphedro era discreto, segreto, concreto. Serbava tutto e si rodeva nel suo odio. Un'enorme bassezza comporta sempre un'enorme vanità. Era benvoluto da coloro ch'egli divertiva e odiato dagli altri; ma ma egli si sentiva sdegnato da coloro che lo odiavano, e disprezzato da quelli che gli volevano bene. Si conteneva. Tutti i suoi risentimenti bollivano senza strepito nella ostile sua rassegnazione. Era indignato, come se i farabutti avessero il diritto di esserlo. Era silenziosamente i preda alle furie. Eccelleva nell'ingoiare ogni cosa. Interiormente, però, aveva sordi corrucci, frenesie di rabbia sotterranea, fiamme soffocate e nere, di cui nessuno si accorgeva; era un collerico fumivoro. La superficie era sorridente. Era servizievole, premuroso, facile, simpatico, compiacente. Salutava sempre, non importa chi e non importa dove. Un soffio di vento bastava a farlo inchinare fino a terra. Che fortuna avere una flessibile canna per colonna vertebrale!
"Questi esseri nascosti e velenosi non sono così rari come si crede. Tutti viviamo in mezzo a sinistri strisciamenti. Perché esistono i malefici? Penosa domanda! Il sognatore se la rivolge di continuo e il pensatore non vi trova alcuna risposta. Da ciò l'occhio triste dei filosofi, sempre fissato su quella montagna di tenebre che è il destino, dalla cui sommità il mastodontico spettro del male lascia cadere manciate di serpenti sulla terra.(…)
"Pazienza, temperanza, continenza, riservatezza, ritegno, affabilità, deferenza, dolcezza, buona creanza, sobrietà, castità completavano Barkilphedro. Egli calunniava queste virtù, possedendole.
"In breve, Barkilphedro prese piede a corte.(…)
"Si era insinuato dove voleva.(…)
"Barkilphedro era così sorridente, così accattivante, così incapace di prendere la difesa di chicchessia, e in fondo così poco devoto, così brutto, così cattivo, che era naturalissimo che un regnante dvesse finire per trovarlo indispensabile. Assaporato che ebbe Barkilphedro, Anna non volle più saperne di alcun altro adulatore.(…)
"La regina voleva molto bene al suo lord stewart, Guglielmo Cavendish, duca di Devonshire, che era un imbecille di tre cotte. Qusto lord, che aveva tutti i titoli conseguibili a Oxford e non conosceva l'ortografia, commise un bel mattino la sciocchezza di morire. Morire, a corte, è una grande imprudenza, ché più nessuno allora vi usa, parlando di voi, il minimo riguardo. Presente Barkilphedro, la regina, lagnandosene, concluse:
"- Peccato, però, che tante virtù fossero rette e servite da una così meschina intelligenza! -
"-Accolga Dio il suo animo! - mormorò Barkilphedro a mezza voce e in francese [gioco di parole, in francese, fra âme (anima) e âne (asino)].
"La regina sorrise. Barkilphedro registrò quel sorriso.
"Ne concluse: - Mordere piace -.
"Alla sua malignità era stata data via libera.
"A partire da quel giorno egli ficcò la sua curiosità in ogni dove, e la sua cattiveria anche. Tutti lo lasciavano fare, tanto lo temevano. Chi fa ridere il re, fa tremare tutti gli altri.
"Era un buffone potente.
"Ogni giorno faceva, sotto sotto, qualche passo avanti. Si aveva bisogno di Barkilphedro. Parecchi grandi lo onoravano della loro fiducia al punto da incaricarlo, all'occorrenza, di qualche commissione vergognosa.
"La corte è un ingranaggio; Barkilphedro vi divenne motore. Non avete mai notato quanto è piccola, in certi meccanismi, la ruota motrice?" (…)
"La mente, come la natura, ha orrore del vuoto. Nel vuoto la natura mette l'amore; la mente, spesso, vi mette l'odio. L'odio riempie.
"L'odio per l'odio esiste. L'arte per l'arte è nella natura più di quanto si creda.
"Si odia. Bisogna pur fare qualche cosa.
"L'odio gratuito, che espressione formidabile! Significa l'odio che trova un compenso in se stesso.
"L'orso vive leccandosi la zampa.
"Non indefinitamente, però. Bisogna rifornirgliela di cibo, quella zampa, mettervi sotto qualche cosa.
"Odiare così alla vaga è dolce, e basta, anche, per un certo tempo; ma bisogna pur finire col dare un loggetto all'odio. Un'animosità diffusa sulla creazione esaurisce, come ogni godimento solitario. L'odio senza scopo è come un tiro a segno senza bersaglio. Ciò che rende interessante il gioco è un cuore da trafiggere.
"Non si può odiare unicamente per l'onore. Ci vuole un condimento, un uomo, una donna, qualcuno da distruggere.
"Questo servizio di interessare il giuoco, di porgergli un bersaglio, di eccitare l'odio fissandolo sopra un oggetto, di divertire il cacciatore mostrandogli la preda viva, di far sperare all'insidiatore in agguato il gorgoglio trepido e fumante del sangue che sta per colare, di rallegrare l'uccellatore con la credulità inutilmente alata dell'allodola, di essere una bestia covata a propria insaputa, per l'assassino, da parte di un essere intelligente, questo servizio squisitamente orribile, di cui chi lo rende non ha affatto coscienza, Josiane lo rendeva a Barkilphedro.
"Il pensiero è un proiettile, Barkilphedro aveva, fin dal primo giorno, preso di mira Josiane con le cattive intenzioni che aveva in animo. Un'intenzione e uno schioppo si assomigliano. Barkilphedro se ne stava con lo schioppo puntato, dirigendo contro la duchessa tutta la segreta sua malignità. Ve ne stupite? Che mai vi ha fatto, l'uccello cui sparate una fucilata? Fate per mangiarlo, dite voi. Barkilphedro pure." 


(Victor Hugo, L'uomo che ride, ed. Rizzoli, 1959, traduzione di L. G. Tenconi).

Questo brano di Victor Hugo è notevole sotto diversi aspetti, ma particolarmente per la straordinaria capacità di individuare le radici psicologiche del sentimento dell'odio. Egli ha visto con eccezionale chiarezza che l'odio allo stato puro non è originato da una offesa ricevuta e quindi non è mai diretto contro qualcuno che ci ha fatto del male o che noi crediamo ci abbia fatto del male, e nemmeno verso le persone le cui vite sfiorano la nostra senza competizione e senza potenziali motivi di scontro. L'odio allo stato puro - quello di Barkilphedro - è sempre una passione diretta contro coloro che ci hanno beneficato e che sono lontanissimi dal sospettare, o anche solo dall'immaginare, quel che noi proviamo per loro. Si tratta, perciò, di un sentimento abilmente dissimulato, mediante una capacità di nascondimento e perfino di apparente devozione che sfiora l'ambito del demoniaco. Non si odia veramente se non colui che ci ha beneficati, e ciò per due buone ragioni: 1) perché, in determinati animi patologicamente orgogliosi, il fatto di aver ricevuto un aiuto nel momento della difficoltà crea la consapevolezza torturante dell'impossibilità di un gesto reciproco, condannandoci a uno stato di perpetua inferiorità e di gratitudine forzata, come un debito che non potrà mai essere saldato; 2) perché la disponibilità dell'altro a venirci in aiuto può essere vista come il segno di una condizione privilegiata, dall'alto della quale è facile (e arrogante) distribuire favori, mentre noi siamo perseguitati dalla sfortuna e dal bisogno e dobbiamo lottare disperatamente per stare a galla. Risentimento e invidia sono dunque i cavalli che conducono la biga infernale dell'odio nel loro galoppo sciagurato: galoppo tanto più rovinoso quanto più chi ne è preda si sforza di nasconderlo a tutti, e specialmente al proprio benefattore e vittima designata.
Un altro esempio eccellente di odio nato dal risentimento per il bene ricevuto e dalla gelosia per la supposta fortuna altrui è dato dal protagonista del romanzo L'invidia, dello scrittore russo Jurij Oleša, una delle opere migliori della cosiddetta letteratura sovietica. Ma l'esempio più celebre e più vicino alla nostra sensibilità 'moderna' è fornito dal protagonista delle Memorie dal sottosuolo di Fedor Dostojevskij, là dove egli offende crudelmente, dandole del denaro, la mite e infelice ragazza di strada che - unico essere umano al mondo - gli aveva mostrato un po' di dolcezza e di affettuosa comprensione.
I filosofi non sono stati altrettanto perspicaci nell'analizzare le radici del sentimento dell'odio (con l'eccezione, forse, di Émile Cioran). L'odio non è semplicemente una 'passione dell'animo', come volevano i Greci e, fra i moderni, Spinoza: è il sentimento che può dirci più cose sulla natura umana di quante ce ne possano dire tutti gli altri messi insieme. Esso è straordinariamente interessante proprio per il carattere di gratuità che lo distingue, da questo punto di vista, dall'amore. Nell'amore, infatti, siamo attratti da ciò che desideriamo: da colui o da colei che avvertiamo come indispensabili alla realizzazione della nostra felicità; nell'odio, invece, gettiamo la maschera della nostra ragionevolezza e concentriamo il nostro furore contro qualcuno che non ci ha fatto nulla se non del bene, che non sappiamo o non possiamo o non vogliamo ricambiare. Pertanto l'odio si combina immancabilmente col sentimento della nostra inferiorità: se non ci sentissimo inferiori (magari dando la colpa alla sfortuna) non odieremmo, perché non si odia un proprio pari né, tanto meno, colui che stimiamo trovarsi al di sotto di noi. A torto si dice che l'amore è cieco, intendendo con ciò che è irragionevole: non è vero; l'amore è ragionevolissimo nella misura in cui si prefigge il perseguimento di un oggetto che, secondo noi, potrebbe darci la felicità; ciò non è affatto irragionevole. Irragionevole è l'odio, perché non ha l'obiettivo di farci raggiungere o possedere qualcosa, ma di distruggere qualcun altro; pertanto, anche se riusciamo nel nostro intento, non troveremo mai quel senso di perfetto appagamento (e sia pure fuggevole) che nasce al possesso di un bene, ma solo quel suo amaro surrogato che deriva dal godimento di un male altrui.
Dicevamo che l'odio, allo stato piro, confina col diabolico: ciò avviene proprio per la sua gratuità, cioè per il suo carattere di scelta deliberata e (più o meno) consapevole. Pertanto esso corrisponde alla scelta del male per il male, del male non necessitato; si può provare un moto di furore in condizioni di legittima difesa, mentre l'odio è un lungo pasto consumato in silenzio e ruminato a mente fredda. Non si uccide per odio puro se non molto raramente e in circostanze alquanto particolari: perché uccidere l'oggetto del proprio odio vorrebbe dire eliminare una ragione fondamentale di vita. Come si potrebbe continuare a vivere, una volta che si fosse svuotata la propria vita dell'odio che le dava un senso e le conferiva pienezza? No: bisogna perseguitare colui che si odia, frantumarlo poco alla volta, arrostirlo a fuoco lento: bisogna prolungare al massimo io piacere di odiarlo, di augurargli il male e di fargliene quanto è possibile; ma senza rovinare irreparabilmente il proprio giocattolo.
Se l'odio nascesse da un risentimento giustificato, e sia pure patologico, non sarebbe ancora odio allo stato puro. Quest'ultimo è tale perché emerge come una esigenza imperiosa e costitutiva dell'io, senza la quale l'io soffrirebbe di gravi scompensi e cadrebbe in uno stato di depressione potenzialmente suicida. Dunque, si odia per non suicidarsi; si odia per salvarsi la vita; e per nulla al mondo si rinuncerebbe al proprio odio. Tanto varrebbe rinunciare a vivere: per certe personalità, si potrebbe parafrasare Cartesio col motto. Odio ergo sum. Nessuna offerta di riconciliazione né, a maggior ragione, di riconciliazione potrebbe indurre chi odia veramente a deporre il proprio odio: si sentirebbe perduto, inutile, abbandonato in balìa di forze ostili. Meglio tutelarsi odiando per primi e odiando per sempre: l'odio è una specie di contributo che versiamo per la pensione di anzianità. Solo odiando certi individui si sentono veramente al sicuro.
Per disarmare l'odio, bisognerebbe contemporaneamente offrire all'odiatore rimasto orfano della propria passione un risarcimento adeguato, sotto forma di rassicurazione esistenziale e di sostegno psico-affettivo. Non è cosa da poco chiedergli di rinunciare al proprio odio: tanto varrebbe domandare all'avaro di donare tutti i suoi averi in beneficenza. E in ciò risiede un altro aspetto della diabolicità dell'odio: è una catena che non si lascia spezzare, un vortice che rifiuta di placarsi. Colui che incomincia a odiare si avvia veramente su una pista senza ritorno: una pista assolata e desertica ove soffrirà eternamente i tormenti del caldo e della sete; e, se pure gli capiterà di incontrare una fresca sorgente sul suo cammino, se ne allontanerà senza bagnarsi neppure le labbra screpolate e riarse, come un cane idrofobo che sta morendo di sete ma ha un orrore invincibile della sola cosa che potrebbe aiutarlo: l'acqua.
Se tutto questo è vero, ne consegue che colui che odia è un disperato e, come Kierkegaard ha ben mostrato, la disperazione è la malattia mortale dell'uomo. Di più ancora: egli è, alla lettera, un posseduto: posseduto dai mille dèmoni che lo agitano e lo scuotono senza mai la speranza "non che di posa, ma di minor pena" (Dante, canto V Inf.). volere il male dell'altro come scopo inconfessato e inconfessabile della propria vita e rifiutare ostinatamente ogni possibile sollievo, ogni possibile alternativa: che altro è ciò, se non possessione demoniaca? Anche se, spesso, essa viene mascherata da nobili paraventi: la giustizia, la legge, il dovere, la necessità, la politica o, addirittura la religione. La vita di chi odia è talmente vuota, la sua personalità talmente debole e la sua autostima così bassa (anche se egli può non esserne del tutto consapevole) che, il più delle volte, costui non osa odiare per conto proprio, ma ha bisogno di farlo nascondendo la sua pochezza e la sua miseria dietro lo scudo dei grandi ideali e delle nobili cause. Tuttavia sarebbe un grave equivoco pensare che qualcuno possa odiare davvero qualcun altro per la diversità di idee politiche o religiose; al contrario, si odia per mezzo delle idee politiche e religiose. Esse altro non sono che lo strumento per poter dissimulare la gratuità assoluta del proprio odio e per meglio affilare la lama, tacitando eventuali sensi di colpa mediante la convinzione di essere dei paladini al servizio di una giusta causa, di una santa missione.
A questo punto risulta chiaro come dall'odio non vi sia possibilità di remissione. Pochissimi sono coloro che riescono a liberarsene, una volta che lo abbiano lasciato galoppare a briglia sciolta per un periodo prolungato; e, se anche vi riescono, rischiano di andare incontro all'auto-distruzione. Non si possono evocare impunemente le forze del male. A meno che coloro i quali vogliono veramente liberarsene non riescano a compiere il salto qualitativo verso un altro piano di consapevolezza, come fece il famoso monaco tibetano Milarepa che, da giovane, aveva praticato la magia nera per far morire i nemici di sua madre, alla quale aveva giurato solennemente odio eterno nei confronti di coloro che l'avevano ingiustamente perseguitata. Si tratta, però, di casi assolutamente eccezionali. La regola è che il demonio non lascia più liberi coloro che gli si votano. Perseverare nell'odio, infatti, attingendo alla sfera dell'odio puro, dell'odio per l'odio, è l'equivalente di un atto di vera e propria magia nera: le forze malefiche che si annidano dentro l'essere umano si ricongiungono a quelle che esistono fuori di lui; forze infra-umane le quali altro non attendono che un simile invito per invadere e possedere l'incauto. Di odio, quindi, si muore: se non fisicamente (ma quanti infarti, quante ulcere, quante malattie sono causate dalla fiamma inestinguibile di questa passione distruttiva?)., certo psicologicamente e spiritualmente. Colui che è posseduto dall'odio non riveste che le sembianze di un essere umano: in realtà è divenuto una morta creatura delle tenebre e, al momento della morte - come insegnano le culture tradizionali - molto probabilmente egli diventerà uno spirito del male, ancora capace di spargere angoscia e sofferenza nel mondo dei vivi. Del resto, secondo la teoria buddhista dei dieci mondi, un individuo siffatto già vive - prima ancora della morte fisica - nel mondo più basso di tutti, che è né più né meno che l'Inferno. Dopo la morte, le forze infernali che lo possiedono sono libere di agire senza più le limitazioni del corpo fisico entro il quale erano imprigionate. Ciò avviene tanto più sicuramente, se il momento del trapasso ha visto l'anima sconvolta dai furori dell'odio. Il modo della morte, infatti - secondo il sapere tradizionale - è decisivo per il suo destino futuro, non meno delle scelte di vita che l'hanno preceduta. Il destino futuro dell'anima, in sostanza, ha a che fare con il genere di esistenza che essa ha condotto e da ciò che essa si aspetta dopo: e chi è vissuto schiavo dell'odio ed è morto odiando qualcuno, proietta tali forze demoniache nella dimensione ultraterrena, raccogliendo il frutto delle sue scelte e delle sue aspettative.
I démoni sono in mezzo a noi, ma vestono - come Barkilphedro - abiti dimessi e in fondo rassicuranti. "Tutti viviamo in mezzo a sinistri strisciamenti -scrive Victor Hugo.Quando poi i dèmoni rimangono soli, gettano la maschera e appaiono in tutta la loro terribile mostruosità. Lo storico bizantino Procopio di Cearea racconta che l'imperatore Giustiniano, quando si appartava nelle sue stanze del palatium, assumeva le sembianze spaventose di un demonio vero e proprio (nel libro Storia segreta, capitolo12):

"Alcuni di quelli che lo assistevano fino a notte inoltrata e vivevano con lui a palazzo - persone, naturalmente, di mente sana - credettero di vedere invece di lui un fantasma di demone a loro insolito. Uno raccontava che, alzatosi all'improvviso dal trono imperiale, egli passeggiava, perché non era abituato a rimanere a lungo seduto, ma che all'improvviso, scomparsa la sua testa, solo il resto del corpo sembrava fare quei lunghi giri. Pensando di non vederci bene quel tale era rimasto a lungo costernato e perplesso; ma poi, quando la testa era ritornata sul copro, capì che si erano inaspettatamente completate le parti che prima erano state separate. Un altro raccontò che si trovava accanto a Giustiniano seduto, quando improvvisamente vide il suo volto diventare simile a carne indistinta senza i sopraccigli né gli occhi al loro posto né altro contrassegno, e che solamente dopo un po' di tempo vide che il viso aveva ripreso la sua forma. (…) Si dice anche che un monaco particolarmente caro a Dio, persuaso da quelli che vivevano con lui nel deserto, si recò a Bisanzio per soccorrere le popolazioni vicine che subivano maltrattamenti e ingiustizie insopportabili. Al suo arrivo ottenne subito di avere udienza dall'imperatore, ma, mentre stava per entrare da lui, varcò la soglia con un piede, poi, indietreggiando improvvisamente, ritornò sui suoi passi. Allora l'eunuco che lo introduceva e gli altri che erano presenti insistettero perché andasse avanti; egli non rispose nulla, ma, come un forsennato, si allontanò per far ritorno nella stanza, dove alloggiava. Quando quelli che lo seguivano gli chiesero il motivo del suo comportamento si dice che rispose apertamente di aver visto nel palazzo, seduto sul trono, il capo dei dèmoni: con una persona simile egli non si sarebbe mai incontrato né gli avrebbe mai chiesto nulla."

(traduzione di Federico Ceruti, Milano, Rusconi, 1977, pp.120-121).

Per fortuna dell'umanità, non solo la potenza dell'odio è in grado di alimentarsi di forze non umane e di sprigionare energie dagli effetti tangibili; anche quella dell'amore lo è, e in misura assai maggiore. L'amore è in grado di creare un circuito virtuoso che armonizza la vita dell'anima e ricollega l'uomo-microcosmo al macrocosmo della vita universale. E mentre l'amore si allarga per sua stessa natura, l'odio è sterile e stenta a fruttificare. È vero che diverse migliaia di sciagurati hanno deciso di consegnarsi volontariamente alle forze del male, adorando il demonio e affiliandosi a svariate sette sataniche. Ma non saranno in grado di nuocere all'umanità nel suo complesso, finché vi saranno - a fare da parafulmine e a controbilanciarne gli effetti - uomini e donne capaci di amare, rendendosi vulnerabili grazie al coraggio che da esso nasce. Perché se la caratteristica dell'odio è il nascondimento, quella dell'amore è la trasparenza; non si può porre la fiaccola sotto il moggio: l'amore è una fiamma che illumina tutta la stanza. E la riscalda dolcemente, tenendo lontane tutte le forze del male.

Di Francesco Lamendola
Già pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 19/05/2007

martedì 10 dicembre 2019

Tutte le lettere d'amore sono ridicole

«Tutte le lettere d’amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d’amore se non fossero
ridicole.
Anch’io ho scritto ai miei tempi lettere d’amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d’amore, se c’è l’amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d’amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d’amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.
(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente
ridicole)».

- Fernando Pessoa, “Tutte le lettere d’amore sono ridicole”


domenica 1 dicembre 2019

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

- E. Montale