martedì 11 febbraio 2020

Volontà di potenza come volontà di naufragio: quando il superamento passa dall’autodistruzione

Di Valentino Della Casa

La manifestazione della volontà di potenza attraverso quella che possiamo definire volontà di naufragio costituisce una componente centrale all’interno non soltanto del pensiero nietzscheano, di cui il citato aforisma 405 del Wille zur Macht è un esempio, ma anche di tutta la psicologia umana, con radici antichissime.
La volontà di autodistruzione come estrema tensione verso la propria affermazione veniva infatti individuata e ammirata da Nietzsche (che di questa si fa promotore, non di certo ideatore) già come parte decisamente importante della cultura greca, verso la quale il filosofo tedesco guardava nel tentativo di ristabilire il ritorno della rappresentazione tragica. La nascita della tragedia può essere considerata infatti come un prodromo, benché piuttosto remoto, di questa concezione: la figura di Edipo non a caso veniva celebrata da Nietzsche, per l’incredibile sopportazione di fronte alla sofferenza. Leggiamo proprio nella Nascita della tragedia:
La figura più dolorosa della scena greca, lo sventurato Edipo, è stata concepita da Sofocle come l’uomo nobile che è destinato all’errore e alla miseria nonostante la sua saggezza, ma che alla fine, in virtù del suo immenso soffrire, esercita intorno a sé un’azione magica e benefica, che è ancora efficace dopo la sua dipartita. L’uomo nobile non pecca, vuol dirci il profondo poeta. Perisca pure a causa del suo agire ogni legge, ogni ordine naturale e perfino il mondo morale: proprio da questo agire viene tracciato un superiore, magico cerchio di effetti, che fondano un nuovo mondo sulle rovine di quello vecchio crollato.
Una sofferenza catartica, dunque, che, come quella che era la concezione antica di malattia (concezione particolarmente greca, secondo l’analisi di Bertram in Nietzsche. Per una mitologia), permette all’uomo non solo di conservare se stesso, ma di raggiungere quell’autosuperamento cui il periodo tardo ottocentesco-inizio novecentesco anelava.

In effetti, Nietzsche si riproponeva come portavoce di una teoria già particolarmente radicata all’interno della cultura popolare tedesca. L’idea che il sacrificio possa permettere quantomeno la conservazione dell’onore era già insita, e in maniera piuttosto marcata, nel Medioevo. Del Duecento è il Nibelungenlied, uno dei poemi più celebri di tutto il ramo dell’Europa continentale, il quale, a sua volta, trae origine dal più antico Edda. Come giustamente definisce Mancinelli, tutto il poema è caratterizzato da un’inesauribile «attesa di sciagura», attesa che i protagonisti a più riprese cercheranno di abbreviare, per poter affrontare con coraggio il proprio destino. Nella reggia di Attila, infatti, i Burgundi combattono soprattutto per conservare il loro onore, valore decisamente più importante di ogni altro.
Non voglia Dio dal cielo, – Gernot rispose [a Crimilde].
Se mille noi fossimo, vorremmo tutti morire,
noi della stirpe, prima di darti un uomo,
in ostaggio nelle tue mani: questo non sarà mai.
Dobbiamo dunque morire, – Giselher disse.
Ma nessuno ci toglierà l’onore di cavalieri.
Chi vuol combattere con noi, noi l’attendiamo,
perché io non tradisco nessuno dei miei compagni4.
L’idea della guerra come motivo di catarsi assume un ruolo centrale, tanto che non con rassegnazione, bensì con grande forza di volontà, Hagen, l’ambiguo vassallo dei re Burgundi (nelle due parti del poema, la sua figura si trasforma enormemente), farà capire ai suoi soldati come il viaggio in terra unna non avrebbe avuto ritorno.
Fermatevi, – disse Hagen,– cavalieri e scudieri.
Prestate fede alle parole di chi vi è fedele.
Io devo rivelarvi delle infauste notizie:
non torneremo mai più nella terra burgunda5.
6E l’esercito lo segue, senza esitazione, accettando di farsi chiudere dentro una sala, di farsi circondare dai nemici, ma di combattere fino allo stremo delle forze.
6 «I Nibelunghi. Un sogno tedesco, un incubo tedesco».
Che i Nibelunghi fossero particolarmente amati da Nietzsche non è certo cosa poco risaputa: a più riprese, infatti, il filosofo tedesco citava parti del poema o rifletteva su alcune caratteristiche dei personaggi. Un interesse che, in linea più generale, è tipico di tutta la cultura Romantica e post Romantica. Nella raccolta di saggi critici di Heinzle e Waldschmidt, Die Nibelungen. Ein deutscher Wahn, ein deutscher Alptraum, si possono infatti ritrovare tutte le teorie che, a cavallo tra il xix e il xx secolo, hanno accompagnato la lettura del Nibelungenlied, nel tentativo di capire se a questo poema poteva essere attribuito o meno il ruolo, all’interno della cultura germanica, di Nationalepos. Difficile, effettivamente, non insignire di tanto significativo riconoscimento il poema dell’Anonimo del Duecento, come chiaramente dimostrano, a titolo di esempio, le numerose orazioni politiche tenute nella Germania pre e post Grande Guerra. Appariva infatti particolarmente efficace paragonare la nazione tedesca, uscita sconfitta dal conflitto del ’14-’18, come Sigfrido pugnalato alle spalle dall’amico Hagen (fu uno dei primi discorsi di Paul von Hindenburg), oppure richiamare all’attenzione del popolo tedesco che proprio Hagen, nei confronti dei suoi signori, sia stato un chiaro esempio di fedeltà estrema e incondizionata verso i propri signori e amici – Nibelungentreue, per l’esattezza, come ricordava nel 1909 il cancelliere Bernhard von Bülow, sancendo l’alleanza con l’Austria.

D’altra parte, proprio il concetto di fedeltà cieca è stato forzosamente ripreso anche da Hitler, altro grande promotore di quella che è la volontà di naufragio come mezzo per conseguire la propria affermazione prima, il proprio superamento poi.

Anche durante il regime, infatti, il Nibelungenlied è stato più volte portato per esempio nel tentativo di spronare nuovamente al combattimento una Germania spossata da una guerra logorante, ormai destinata verso la sconfitta. Particolarmente interessante, in questo senso, è il discorso di Göring del 30 gennaio 1943, a poche settimane dalla disfatta delle armate naziste a Stalingrado.
Noi conosciamo un canto forte, un canto eroico d’una battaglia senza eguali, si chiama “la battaglia dei Nibelunghi”. Anche loro erano asserragliati in una reggia, piena di fiamme e di fuoco, alleviavano la loro sete con il proprio sangue, ma combattevano, combattevano fino all’ultimo. Una simile battaglia là oggi infuria e ogni tedesco ancora tra mille anni pronuncerà con un brivido sacro la parola Stalingrado e ricorderà che laggiù la Germania ha posto il sigillo per la vittoria finale! L’Europa ora comincia forse a capire, tremando, che cosa significhi questa battaglia, comincia a capire che quegli uomini, che laggiù hanno opposto fino all’ultimo una resistenza disperata, salvano non soltanto la Germania, ma anche l’Europa e quegli stati che ancor adesso vegetano in una tranquilla neutralità.
L’io è costantemente sotto attacco, è in pericolo e si trova circondato dai nemici. Si tratta di un altro grande tema, che nella cultura tedesca (riscontrabile anche all’interno dell’Opera nietzscheana) trova terreno fertile: è la sindrome di accerchiamento, che definisce la costante percezione di una minaccia dall’esterno, una sorta di tenaglia pronta a distruggere ogni sogno di grandezza cullato dalla Germania.
In questi dieci anni che hanno visto la costruzione della nuova nazione è però cominciata la guerra dal di fuori contro la Germania, questa Germania che aveva appena concluso le guerre interne, che si era di nuovo saldamente riunita, contro questa Germania è ricominciato l’attacco dall’esterno – e anche questa non è dunque una novità. Ogni volta che la Germania, favorita da una forte leadership, ha voluto rendersi forte e unita oppure è diventata unita e forte, si è scontrata con gli stessi rivali8.

La potenza del mito, come suggerisce Bertram ben prima dell’ascesa del Partito, conferisce una particolare attrattiva all’interno della psicologia popolare, e non a caso durante il Ventennio la propaganda nazista ne fece largo uso, soprattutto durante gli anni critici del Conflitto, vale a dire quando la Germania, dalle cosiddette «guerre di aggressione» dovette passare alla strategia del «non un passo indietro». La visione eroica della Germania solitaria e accerchiata, immagine intrinsecamente nibelungica, affascinava in particolar modo lo stesso Hitler, con un chiaro riflesso, nel concreto, sulle decisioni di natura bellica.
Con l’approssimarsi della fine, anche le tendenze mitologizzanti andarono assumendo sempre più chiara evidenza. La Germania, assalita da tutte le parti, venne stilizzata a epitome dell’eroe solitario, e la propensione, profondamente radicata nella coscienza tedesca, a disprezzo idealizzato per la vita, al romanticismo del campo di battaglia e alla trasfigurazione della morte violenta, venne una volta ancora mobilitata. Le fortificazioni e le posizioni a istrice, che Hitler diede ordine di costituire e di difendere a ogni costo un po’ dappertutto, simboleggiavano, su scala ridotta, quell’idea dell’avamposto perduto, che la Germania emblematizzava nel suo complesso e che sul mondo sentimentale, fondamentalmente pessimistico, sia di Hitler sia dei fascisti in generale, aveva sempre esercitato un’oscura forza d’attrazione; vi confluivano, abbaglianti e operistici insieme, motivi wagneriani, nichilismo germanico e romanticherie decadentistiche: “Soltanto una cosa ancora voglio: la fine, la fine!”. Non fu certo per caso che Martin Bormann, nell’ultima lettera di lui rimastaci e spedita alla Cancelleria del Reich ai primi d’aprile del 1945, ricordasse a sua moglie la fine dei Nibelunghi nella grande sala di Attila, e tutto sta a comprovare che il solerte segretario avesse ripreso anche quest’idea dal suo padrone.
Combattere senza speranza, ma con uno scopo, che in questo caso si presenta come la sopravvivenza di un intero popolo e il suo continuo progresso, è esattamente la tesi sostenuta da Nietzsche per ottenere l’autosuperamento.

Ecco spiegati i costanti appelli al sacrificio nel nome non di un popolo, ma addirittura di un’ideologia che, ormai portata all’apice dell’esaltazione, è diventata la causa suprema di ogni guerra, ponendosi dunque a giustificazione della richiesta di autodistruzione.

Nel suo Il godimento come fattore politico, Žižek parla di «esperienza estatica» di una Comunità, notando proprio come dalla ricerca della morte si creasse un legame particolarmente intimo all’interno dei membri del Partito.
In uno dei suoi discorsi alla folla nazista a Norimberga, Hitler fece un’osservazione autoreferenziale su come doveva venir percepita quella stessa riunione: un osservatore esterno, incapace di fare esperienza della “grandezza interiore” del movimento nazista, vi vedrà solo il dispiegamento di una forza politica e militare esterna, mentre per noi membri del movimento, che viviamo e respiriamo con esso, è infinitamente di più, è l’affermazione del legame che ci unisce intimamente […].
D’altra parte, la spettacolarizzazione della morte, come spiega Fest in Hitler. Una biografia, era «tipico dello stile teatrale del Terzo Reich»:
Il temperamento pessimistico di Hitler ricavava, dalle cerimonie della morte, nuovi, inesauribili effetti abbacinanti, e i culmini di quella demagogia da lui per primo programmaticamente e artificiosamente elaborata si toccavano quand’egli percorreva la Königsplatz di Monaco di Baviera o, durante i congressi del partito a Norimberga, l’ampia Theatergasse, tra cupe musiche di fondo e due fitte ali formate da centinaia di migliaia di schierati, per recarsi a rendere onore ai caduti: in siffatti scenari di una magica suggestività da venerdì santo politicizzato, in cui, esattamente come è stato detto a proposito della musica di Richard Wagner, «lo splendore reclamizzava la morte»11, la concezione hitleriana della politica come fatto estetico trovava la propria piena realizzazione.
Ecco che dunque la losurdiana Kriegsideologie, che già a partire dalla Prima guerra mondiale (si legga, per esempio, il discorso di Natale del 1914 di Max Weber alle truppe) centralizzava l’idea di sacrificio e logoramento come mezzo supremo per ottenere la vittoria, si modifica ulteriormente durante il Ventennio del Reich, estremizzando l’idea di autodistruzione, facendola sconfinare, come scritto poco sopra, su un piano ancor più demagogico. Il già citato Weber, affermava che «per quanto riguarda la Germania, essa è scesa in guerra, anche a costo di perderla, ascoltando la voce del “destino”, in difesa del proprio “onore”». Non poteva pensarla diversamente Hitler, così fortemente attaccato all’idea di un destino supremo che avrebbe portato alla vittoria, ottenuta con il sangue e con il sacrificio.

Anche in questo caso, il retaggio culturale ha sicuramente radici profonde. Lo stesso Nietzsche, in Ecce Homo, ricorda quale sia la propria idea di condurre una guerra:
La mia regola di guerra comprende quattro princìpi. Primo: attacco solamente cose che vincono; in certi casi, aspetto fino al momento in cui vincono. Secondo: attacco solamente cose contro cui non potrei trovare nessun alleato, così son solo, – così comprometto solamente me stesso… Non ho mai fatto un passo in pubblico che non mi compromettesse: questo è il mio criterio del giusto agire. Terzo: non attacco mai persone – mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale, ma sfuggente, difficilmente afferrabile. […] Quarto: io attacco solo cose alle quali non sia connessa nessuna disputa personale o un qualche retroscena di brutte esperienze. Al contrario, per me attaccare è un segno di benevolenza, a volte di gratitudine.
È preferibile attaccare da soli, rischiando di morire, sapendo che la vittoria rimane soltanto un lontano miraggio, piuttosto che invocare l’aiuto di altri. Pur considerando un gesto particolarmente altruistico l’attacco verso il nemico, per Nietzsche la vera natura della guerra trova identificazione in quello che può essere definito egoismo eroico, che conferma l’importanza di un movimento élitario per annullare e superare l’ideale del gregge, moralmente dequalificante l’uomo. Viene rimarcato qui ancora una volta ciò che già permeava lo Zarathustra: l’idea di un sacrificio estremo, preferibile, anzi, alla salvaguardia della stessa persona. Nel capitolo dedicato alla guerra e ai guerrieri, Zarathustra rimarca l’importanza della costante ricerca dello scontro da parte dell’uomo, che, ancora una volta, deve saper accettare la sua rovina:
Dovete amare la pace, quale mezzo di nuove guerre. E la pace breve più che la lunga.Non vi consiglio lavoro, ma lotta. Non vi consiglio la pace ma la vittoria. Il vostro lavoro sia lotta, la vostra pace vittoria!Non si può tacere e restar silenziosi che quando si possiede un arco e la freccia: altrimenti si ciancia e si disputa. Sia la vostra pace la vittoria!Voi dite che la buona causa santifica perfino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra che santifica ogni causa.[…]Il vostro amor della vita sia l’amore della vostra più alta speranza: e la vostra più alta speranza sia il più alto pensiero della vita!Ma il vostro più alto pensiero dovete lasciare che ve lo comandi io, e suona: l’uomo va superato.Vivete così la vostra vita d’obbedienza e di guerra! Che importa vivere a lungo? Quale guerriero vuol’essere risparmiato?Io non vi risparmierò, io vi amo profondamente, miei fratelli di guerra!».
Temere la morte non è soltanto un atto di codardia, ma diventa quasi un atto contro natura. Paradossalmente, la vera autoconservazione di sé si persegue soltanto non volendosi autoconservare, andando costantemente alla ricerca del nemico, che mina le sicurezze dell’uomo-soldato. Potenza e rischio di morte si intrecciano nel tentativo di affermare la vita, superandone i vincoli morali imposti da secoli di cristianesimo. Nella stessa maniera, viene elevato sensibilmente il valore del sacrificio a difesa dell’ideologia nazista, sacrificio derivante dall’abnegazione totale richiesta nei confronti del Partito durante le ultime fasi della guerra. E ponendosi perfettamente in linea con quanto scritto finora, e in continuità con l’orazione di un paio di anni prima di Göring, fu Göbbels, il 21 aprile 1945, a esortare alla strenua resistenza, questa volta di Berlino, cercando di richiamare alla memoria quell’intimo legame, come già sottolineato da Žižek, che ha reso i membri del Partito uniti e pronti a morire per la rivoluzione nazionalsocialista.
Il Führer non è fuggito nella Germania meridionale. Egli rimane a Berlino e con lui tutti coloro che ha trovato degni di battersi al suo fianco in questo fatidico momento… Ora, soldati e ufficiali del fronte, voi non state soltanto combattendo la battaglia finale e decisiva del Reich, ma con la vostra lotta state anche portando a compimento la rivoluzione nazionalsocialista. A combattere sono rimasti soltanto gli irriducibili rivoluzionari.
Al Partito non restava che salvaguardare almeno la propria storia, e nel suo delirante desiderio di onnipotenza Hitler cercò in tutti i modi di creare e mantenere un’immagine gloriosa di sé, vedendo nell’eroismo che sfocia nel sacrificio il metodo migliore per poter perseguire questo suo obiettivo.
Hitler, dal canto suo, si era ormai reso conto che la storia era tutto quanto gli era rimasto […] [e] la sua mania di spargere sangue e distruzione si intensificò. Uno dei principali motivi della sua decisione di rimanere a Berlino è quanto mai semplice. La caduta di Berchtesgaden non avrebbe avuto lo stesso significato della caduta di Berlino. E non avrebbe offerto le stesse spettacolose immagini di monumenti distrutti e di edifici in fiamme.
Il binomio gioco-morte caratterizzava sempre di più l’ultimo Hitler, che ormai, quasi noncurante dell’esito del conflitto, si preoccupava soprattutto di promuovere azioni eroiche che avrebbero avuto, secondo un suo già evidenziato disegno, una forte rilevanza storica. Soltanto l’uomo nobile, sembrano concordare Nietzsche e Hitler, gioiosamente protende verso la propria distruzione: la volontà di naufragio, in ultima analisi, permette unicamente agli spiriti più elevati di autosuperarsi e quindi di realizzarsi nell’oltreuomo, che per il Führer altro non era se non l’uomo amante del progresso. L’autodistruzione diventa quindi parte dell’agire di chi ha saputo riabbracciare il dionisiaco, vale a dire lo spirito nobile (ed è proprio in questo passaggio che l’élitarismo nietzscheano prende maggiormente forma) che è stato in grado di risvegliare il senso tragico dentro se stesso: «Voglio mettere in rilievo un ultimo punto di vista: […] un presupposto decisivo per un compito dionisiaco è la durezza del martello, il piacere stesso del distruggere».

Accettando l’idea di distruzione di sé, in nome di una più alta ideologia, l’uomo non può fallire. O meglio, come afferma anche Littell, nel caso specifico è il fascista che non muore, non soccombe mai, anche se dovesse perdere la guerra. Il suicidio di Hitler, in questo senso, ne è la chiara dimostrazione. Decidendo di togliersi la vita, il dittatore tedesco ha evitato, secondo un paradossale ragionamento psicologico, di essere sottomesso al nemico. La famigerata capitolazione, quasi una parola tabù per Hitler, è stata in questo modo scongiurata, permettendo, secondo un pensiero di chiara matrice nibelungica, la salvaguardia del proprio onore.
«Tunc bene navigavi cum naufragium feci». «Ho navigato bene, perché sono naufragato»: il considerare l’autoannientamento come soluzione positiva del dramma della vita è fortemente radicato nell’animo umano, e ha origini particolarmente remote, come denota la frase attribuita da Diogene Laerzio a Zenone di Clizio, tradotta in latino da Schopenauer e ripresa, in più punti, dallo stesso Nietzsche. Tale interpretazione della forza catartica dell’autodistruzione trova ampi consensi nella storia della cultura tedesca, partendo dai Nibelunghi e approdando fino alla prima metà del Novecento.
La volontà di naufragio trova la sua corrispondenza nel senso tragico della vita, che Nietzsche non causalmente rievoca sin dai suoi primi scritti e che, parimenti, corrisponde a un’esaltata propensione verso il culto della guerra riproposto da Hitler durante tutto il Ventennio.

Uno stravolgimento catastrofico è la condizione indispensabile per raggiungere quel punto superiore a ogni esperienza, cui la filosofia nietzscheana anela, e alla cui affermazione contribuisce nella moderna società di massa anche se non in modo esclusivo. Il nazismo, agli occhi della Comunità, ha sempre favorito l’immagine di grande movimento in grado di permettere il raggiungimento di tale scopo, grazie alla carica fortemente rivoluzionaria di cui appare certamente dotato.

Nietzsche, dunque, non è stato precursore dell’ideologia nazista, ma ha semplicemente dato voce al disagio avvertito dall’uomo nell’epoca tardo-ottocentesca, che torna ancor più accentuato dopo la disfatta della Prima guerra mondiale, affermando ulteriormente la volontà di naufragio come espressione catartica della volontà di potenza.

Gli effetti tragici che questa ha portato, tuttavia, sono radicalmente l’opposto rispetto a quanto si voleva perseguire. Lo Zarathustra è l’espressione culturale di questa ideologia, ma la Seconda guerra mondiale ne è drammaticamente diventata la realizzazione nel concreto, superando ogni ipotesi purificatoria o di autoaffermazione, e arrivando a un livello di coinvolgimento tale della popolazione che soltanto a pochi giorni dalla presa di Berlino si è cominciato a considerare realmente il pensiero della resa. La filosofia di Nietzsche precede sì l’ideologia hitleriana, ma non ne è la causa efficiente, nonostante quest’ultima abbia fatto propri alcuni concetti della prima mettendone in risalto in special modo la carica distruttiva.

La volontà di naufragio sembra dunque costituire quel fil rouge che accomuna concezioni, ideologie occidentali ben lontane nel tempo, e che difficilmente (pur spogliandosi da ogni forma di sterile pessimismo) non avrà più un peso specifico all’interno della storia dell’uomo. Con quale intensità, tuttavia, non è dato sapere.
Ma aggiungi anche questo, tu, bizzarro straniero: quanto dovette soffrire questo popolo, per diventare così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio delle due divinità.

domenica 2 febbraio 2020

Stigma e arte: due facce della stessa medaglia?

di Alice Polerà

L’ignoranza della società porta molto spesso all’esclusione di alcuni soggetti, attraverso un processo di stigmatizzazione, soffermandosi troppo sulla mera apparenza e non andando oltre a quello che risulta di facile comprensione, perché non vi è un’analisi approfondita dell’apparenza stessa. L’artista, in quanto tale, va oltre l’ideologia comune e cerca di portare all’interno della società una Idea nuova, rivoluzionaria, che, quando non viene capita e accettata, sembrerebbe far ricadere l’artista stesso nel vortice della stigmatizzazione.

Stigmatizzare o stimmatizzare è un termine che deriva dal greco tardo stigmatizein ‘marchiare, bollare’, da stigma e significa non soltanto imprimere delle stigmate, cioè marchi o piaghe sul corpo, ma va a definire anche quanto accade in un fenomeno molto diffuso, che attraversa tutte le epoche, fino al giorno d’oggi. Nell’ambito della sociologia, più precisamente, possiamo definire il processo di costruzione mentale della stigmatizzazione, cioè l’esclusione di un singolo, o di una minoranza, da parte del resto della comunità. Al soggetto stigmatizzato viene attribuita una connotazione negativa, tale da farlo allontanare poiché egli, per i suoi aspetti fisici o caratteriali, si procura la nomea di diverso, strano, deviato o, meglio ancora, folle. Questi presenta delle caratteristiche che si discostano dalla visione comune, e quindi accettata, e proprio per tale motivo contro i soggetti stigmatizzati si abbattono tutti i giudizi più riprovevoli. La stigmatizzazione porta ovviamente all’incremento della discriminazione e dello stereotipo. Facendo diffondere un’ideologia malata e ottusa a una percentuale della società sempre più grande.

A tal proposito, Erving Goffman, sociologo canadese, considerato il teorico principale di tale fenomeno scrive agli esordi dell’opera Stigma. L’identità negata:

« Definirò normali noi e quelli che non si discostano per qualche caratteristica negativa dai comportamenti che, nel caso specifico, ci aspettiamo da loro. […] Per definizione, crediamo naturalmente che la persona con uno stigma non sia proprio umana […] Mettiamo in piedi una teoria dello stigma, una ideologia atta a spiegare la sua inferiorità. »

Bisogna di certo anche sottolineare che molte volte i soggetti stigmatizzati sono portatori di handicap; ciò non toglie però che vi sia anche un altro problema di fondo, cioè che tali individui alienati, definiti come problematici, merce di scarto, malati (sempre che i veri malati siano loro) sono soggetti alla grande ignoranza della popolazione che fa sì che essi siano neutralizzati. Questi mostri, che non appartengono alla massa, che nessuno riesce a comprendere, irrazionali, difettosi, scherzi della natura subiscono una soppressione, poiché questa pratica sembrerebbe non fare altro che portare al bene dell’intera società.

Non è un caso che lo stesso filosofo Herbert Spencer considerasse gli uomini suddivisi in superiori ed inferiori, e che quest’ultimi fossero il male di tutta la società, coloro che rallentavano il progresso, lo sviluppo, e per di più portavano a una generale infelicità. Proprio per questo egli sosteneva che anche fra gli uomini, non solo fra gli animali, vi fosse la necessità di eliminare gli esseri inferiori poiché «lo sviluppo di creature più elevate costituisce un progresso verso una forma di esseri capaci di una felicità non diminuita da quei difetti». (Social Statics, 1851)

Sorge, però, un nuovo inghippo: come possiamo suddividere la popolazione in inferiori e superiori? Potremmo dunque identificare con inferiori i soggetti stigmatizzati e in superiori il resto della popolazione? Tale analisi non è di certo così semplice come possa sembrare di primo acchito.

Spesso infatti la società ha costruito una mentalità, quasi un film dell’orrore, nella quale vi sono da una parte i buoni, la maggioranza e poi c’è il diverso, lo strano, lo straniero, il deviato che si allontana dalla massa, che rispetto a quello che a noi pare normale, sembra avere un’altra visione delle cose, incomprensibile, per certi aspetti irrazionale. Potremmo dire che il diverso rappresenti quella macchia d’inchiostro scivolata in mezzo alla pagina bianca, egli sembra dunque rovinare l’unità delle idee, si discosta troppo dai grandi valori che una società così unita (o almeno a quanto si vuole credere) ha costruito sino a quel punto. Ma siamo sicuri che non sia quella pagina bianca, asettica, vuota a non essere malata, a non avere un pensiero così povero, debole, inutile, sciocco ad essere il problema, e quel puntino nero, che non sia forse l’unica cosa di ragionevole in mezzo a tutta quella nullità? Non a caso nonostante la soppressione di questi soggetti, molte volte le loro Idee sono rimaste ancora oggi. Infatti come si dice nel film V per Vendetta:

« Ci insegnano a ricordare le idee e non l’uomo, perché l’uomo può fallire. L’uomo può essere catturato, può essere ucciso e dimenticato. Ma quattrocento anni dopo, ancora una volta un’Idea può cambiare il mondo. »

Di personaggi conosciuti stigmatizzati ne abbiamo avuti molti, a bizzeffe, ogni giorno, anzi, siamo noi i primi a stigmatizzare. Se si fa riferimento al campo dell’arte, Vincent Van Gogh, considerato come un pazzo sfrenato ne è l’esempio lampante. Egli, uno dei maggiori rappresentanti della corrente artistica del Post-Impressionismo, era un pittore nato nel 1853 a Zundert, in Olanda e vissuto a lungo in Francia, dove concluderà la sua vita suicidandosi.

Egli incarnava benissimo tale frase: «i pazzi sono dei soggetti perfetti: parlano e nessuno li ascolta» (Shutter Island). Dipingeva e nessuno lo ascoltava, nessuno apprezzava le sue opere, nessuno aveva piacere di avvicinarsi a lui o alle sue Idee.

Molti critici lo definiscono come un’artista di grande sensibilità e per tale motivo molto tormentato; a causa della sua instabilità mentale, fu più volte ricoverato. Si dice che il suo stato di salute oscillava da momenti di piena lucidità ad altri di pazzia, con allucinazioni e crisi, beveva molto e spaventava il resto della società per questi suoi aspetti incomprensibili. Fu allontanato, o in parte volle egli allontanarsi dalla gente che non lo capiva, ma soprattutto non si impegnava a capirlo, ponendo un muro invalicabile e strozzando subito il confronto.

Fin dagli esordi del film Sulla soglia dell’eternità, che ripercorre la vita di Van Gogh, del regista Julian Schnabel, emerge infatti la solitudine e la voglia di potersi unire agli altri, di non essere abbandonato anche nella semplici gesti della quotidianità:

« Voglio solo essere uno di loro. Vorrei sedermi con loro e bere qualcosa e… parlare di tutto. Vorrei che mi offrissero del tabacco, un bicchiere di vino o anche solo che mi chiedessero “Come stai, oggi?” Al che io risponderei e ci metteremmo a parlare. E di tanto in tanto io abbozzerei qualche loro ritratto, come dono, loro forse accetterebbero e lo conserverebbero da qualche parte e una donna... mi sorriderebbe e mi chiederebbe “Hai fame” “Vuoi mangiare qualcosa? Una fetta di prosciutto, del formaggio o forse un frutto...” »

Analizziamo ancora uno degli episodi più noti della vita di Van Gogh: la mutilazione con un rasoio dell’orecchio sinistro poi minuziosamente avvolto con della carta, avvenuto ad Arles nella sera del 23 Dicembre 1888.

Perché un personaggio del genere dovrebbe autoinfliggersi di sua sponte un così crudele e disgustoso gesto?

Molte teorie sono state avanzate riguardo le motivazioni che hanno portato all’accadimento di ciò: dal non essere riuscito a sopportare l’allontanamento volontario dell’amico Paul Gauguin, a una lite con quest’ultimo, o, secondo un’ipotesi più recente, a causa delle nozze del fratello minore Theo, da cui il pittore dipendeva anche economicamente.

Qualsiasi sia la motivazione, ciò fa ricadere Van Gogh in quella sfera di pazzia, follia, instabilità tale da portarlo a farsi anche del male. Questo gesto, come tanti altri va, ancora di più a costruire intorno al pittore quella prigione che caratterizza il soggetto stigmatizzato, incarcerato a causa della sua diversità. Tuttavia tale mutilazione, per quanto possa sembrare irrazionale, è carica di significato, poiché nel suo farsi male, egli non fa altro che esprimere la sua condizione interiore, una tempesta di sentimenti che lo stanno piano piano uccidendo, egli semplicemente fa emergere la sua insofferenza, il suo dolore.

Eppure tutto ciò non fa che alimentare quel contorto e sprezzante fenomeno dello stigmatismo, ben racchiuso nelle parole della dottoressa Rachel Solando, interpretata da Patricia Clarkson nel film Shutter Island: «Lei crede che sia pazza… e se dico che non sono pazza, non serve a granché, no? È la geniale trovata kafkiana. Quelli dicono tutti che sei pazza e le tue proteste per confutarlo confermano solo quello che dicono loro.»

Non a caso, proprio per tale motivo verrà rinchiuso nell’ospedale di Arles in Francia.

All’interno del film sulla vita di Van Gogh, la scena relativa alla discussione che vi è fra Vincent e Felix Rey, medico dell’ospedale, dopo essersi tagliato l’orecchio, è eccezionalmente significativa.

« Vincent Van Gogh: Dentro di me c’è qualcosa, non so cosa sia. Vedo cose che nessun’altro vede. Questo mi spaventa e a volte ho paura di impazzire. Ma poi dico a me stesso, farò vedere quello che vedo io ai miei fratelli umani che non riescono a vederlo, è un privilegio. Io posso dare loro speranza e fortuna.
Felix Rey: Lei confonde le persone, e confonde se stesso con i suoi quadri.
Vincent Van Gogh: Io sono i miei quadri. »

Van Gogh era considerato un artista mediocre, anzi non un artista, perché non raffigurava quello che la gente voleva vedere tanto che il suo rendimento presso la Goupil & Cie, casa d’arte parigina era molto scarso, o quasi nullo; si sa infatti che Van Gogh vendette un solo quadro in vita “Il vigneto rosso”. Eppure egli voleva impegnarsi a pieno all’interno della società, come portatore di un messaggio universale. Ma come poteva raffigurare la visione degli altri se la sua visione era totalmente diversa da quella che gli altri vedevano? O meglio, riuscivano a vedere?

Il punto sta in questo: era la società a non riuscire a comprenderlo o era lui semplicemente un deviato mentale, degno di essere rinchiuso in un manicomio e di non essere ascoltato?

Ma partiamo da un concetto basilare: molti, per non dire quasi tutti, non lo definivano un artista; cerchiamo allora di sciogliere uno dei nodi più complessi al fine di analizzare l’emblematica figura di Van Gogh: chi è un artista? E soprattutto che cos’è l’arte?

All’interno del film Van Gogh dice:

« Pensavo che un artista dovesse insegnare come guardare il mondo. Ma non lo penso più. Ora penso solo al mio rapporto con l’eternità […] Tempo che deve ancora venire. »

La prima parte della frase sembra ricalcare sinteticamente quanto il filosofo Hegel, sosteneva nell’Estetica. Questi definisce che cosa sia l’arte come una purificazione, potremmo dire una melodia, senza stonature, attraverso la quale la figura dell’artista dovrebbe essere in grado di mostrare un lato affinché possa emergere anche quello che non si vede cioè il contenuto nascosto.

Una raffigurazione deve infatti comunicare un’Idea; il problema è dunque il seguente: come si può comunicare un’idea, un qualcosa di così importante e immenso, attraverso una semplice tela, o un semplice foglio di carta? Proprio qui sta appunto, la bravura dell’artista. Molte volte accade infatti che la mera imitazione di quello che ci appare, raffigurato con minuziosa precisione, non basta, non è in grado di far passare all’osservatore alcun sentimento, alcuna emozione, alcuna Idea. Proprio perciò l’artista deve essere in grado di far presente il significativo, cioè l’ideale che egli vuole esprimere, ma tutto ciò è possibile soltanto se è riuscito ad eseguire dentro di sé un processo di studio approfondito, poiché l’artista dopo essersi fermato a scrutare, guardare, toccare con gli occhi e con tutti gli altri sensi la natura, deve analizzare anche dentro di sé tutto ciò. Arte è quindi ricerca senza fine, ricerca di ciò che può mostrare al meglio un’Idea. Questa ricerca insistente e martellante, compiuta anche dallo stesso Van Gogh è il risultato della necessità di trovare un soggetto che possa al meglio raccogliere quanto più possibile l’universalità dell’idea. In un ritratto non vedremo mai Van Gogh realizzare il singolo dettaglio del viso, poiché non è quello il suo scopo, egli non vuole realizzare la fotografia del soggetto che ha di fronte, vuole piuttosto realizzare la fotografia di un qualcosa che è oltre la fotografia stessa.

Non a caso vi è la necessità di togliere tutto ciò che intacca il valore che si vuole far presente e tenere soltanto l’essenziale, bisogna tralasciare ciò che macchia, nasconde, cela il concetto. Bisogna far in modo che quel quadro sia portatore, nella sua particolarità, di un concetto che risulti il più universale possibile. Proprio per questo possiamo dire che un’opera d’arte è anche spirituale, nel senso che per essere ricordata, deve essere portatrice di un’idea, anzi l’artista deve essere portatore dell’idea, o meglio ancora, essere, incarnare l’idea stessa. 

La seconda parte della frase fa riferimento al fatto che egli si rende conto di come non riesca a comunicare con il resto del mondo quali fossero le sue idee. Possiamo allora asserire che egli non fosse un bravo artista? Sarebbe un giudizio frettoloso e poco corretto.

Perché oggi le sue opere studiate, analizzate insieme alla sua vita, e le sue esperienze mostrano che lui fu veramente in grado di mostrare qualcosa che non riuscivano vedere? Non c’è più cieco di chi non vuol vedere, si può dire in questo caso. Ha forse Vincent sbagliato epoca? Potremmo dire di no, perché è proprio vero che il suo legame con l’eternità è stato più stretto di quanto si potesse credere, non si è fermato lì, come la sua Idea.

Eppure Van Gogh nonostante tutte le difficoltà, le critiche e i periodi di autocommiserazione, sembrerebbe non aver mai messo in dubbio il suo talento come si può comprendere da una sua massima:

« Se oggi non valgo nulla, non varrò nulla nemmeno domani; ma se domani scoprono in me dei valori, vuole dire che li possiedo anche oggi. Poiché il grano è grano, anche se la gente dapprima lo vedeva erba. »

Oggi i suoi quadri valgono centinaia di milioni di euro, e ciò non vuole far emergere soltanto il valore economico delle opere, ma il valore economico di tali Idee che non hanno prezzo. Che sia stato così tanto visionario, il nostro Vincent? Forse egli la soglia dell’eternità, non l’aveva semplicemente raggiunta, ma anche superata.




19 aprile 2019