martedì 11 febbraio 2020

Volontà di potenza come volontà di naufragio: quando il superamento passa dall’autodistruzione

Di Valentino Della Casa

La manifestazione della volontà di potenza attraverso quella che possiamo definire volontà di naufragio costituisce una componente centrale all’interno non soltanto del pensiero nietzscheano, di cui il citato aforisma 405 del Wille zur Macht è un esempio, ma anche di tutta la psicologia umana, con radici antichissime.
La volontà di autodistruzione come estrema tensione verso la propria affermazione veniva infatti individuata e ammirata da Nietzsche (che di questa si fa promotore, non di certo ideatore) già come parte decisamente importante della cultura greca, verso la quale il filosofo tedesco guardava nel tentativo di ristabilire il ritorno della rappresentazione tragica. La nascita della tragedia può essere considerata infatti come un prodromo, benché piuttosto remoto, di questa concezione: la figura di Edipo non a caso veniva celebrata da Nietzsche, per l’incredibile sopportazione di fronte alla sofferenza. Leggiamo proprio nella Nascita della tragedia:
La figura più dolorosa della scena greca, lo sventurato Edipo, è stata concepita da Sofocle come l’uomo nobile che è destinato all’errore e alla miseria nonostante la sua saggezza, ma che alla fine, in virtù del suo immenso soffrire, esercita intorno a sé un’azione magica e benefica, che è ancora efficace dopo la sua dipartita. L’uomo nobile non pecca, vuol dirci il profondo poeta. Perisca pure a causa del suo agire ogni legge, ogni ordine naturale e perfino il mondo morale: proprio da questo agire viene tracciato un superiore, magico cerchio di effetti, che fondano un nuovo mondo sulle rovine di quello vecchio crollato.
Una sofferenza catartica, dunque, che, come quella che era la concezione antica di malattia (concezione particolarmente greca, secondo l’analisi di Bertram in Nietzsche. Per una mitologia), permette all’uomo non solo di conservare se stesso, ma di raggiungere quell’autosuperamento cui il periodo tardo ottocentesco-inizio novecentesco anelava.

In effetti, Nietzsche si riproponeva come portavoce di una teoria già particolarmente radicata all’interno della cultura popolare tedesca. L’idea che il sacrificio possa permettere quantomeno la conservazione dell’onore era già insita, e in maniera piuttosto marcata, nel Medioevo. Del Duecento è il Nibelungenlied, uno dei poemi più celebri di tutto il ramo dell’Europa continentale, il quale, a sua volta, trae origine dal più antico Edda. Come giustamente definisce Mancinelli, tutto il poema è caratterizzato da un’inesauribile «attesa di sciagura», attesa che i protagonisti a più riprese cercheranno di abbreviare, per poter affrontare con coraggio il proprio destino. Nella reggia di Attila, infatti, i Burgundi combattono soprattutto per conservare il loro onore, valore decisamente più importante di ogni altro.
Non voglia Dio dal cielo, – Gernot rispose [a Crimilde].
Se mille noi fossimo, vorremmo tutti morire,
noi della stirpe, prima di darti un uomo,
in ostaggio nelle tue mani: questo non sarà mai.
Dobbiamo dunque morire, – Giselher disse.
Ma nessuno ci toglierà l’onore di cavalieri.
Chi vuol combattere con noi, noi l’attendiamo,
perché io non tradisco nessuno dei miei compagni4.
L’idea della guerra come motivo di catarsi assume un ruolo centrale, tanto che non con rassegnazione, bensì con grande forza di volontà, Hagen, l’ambiguo vassallo dei re Burgundi (nelle due parti del poema, la sua figura si trasforma enormemente), farà capire ai suoi soldati come il viaggio in terra unna non avrebbe avuto ritorno.
Fermatevi, – disse Hagen,– cavalieri e scudieri.
Prestate fede alle parole di chi vi è fedele.
Io devo rivelarvi delle infauste notizie:
non torneremo mai più nella terra burgunda5.
6E l’esercito lo segue, senza esitazione, accettando di farsi chiudere dentro una sala, di farsi circondare dai nemici, ma di combattere fino allo stremo delle forze.
6 «I Nibelunghi. Un sogno tedesco, un incubo tedesco».
Che i Nibelunghi fossero particolarmente amati da Nietzsche non è certo cosa poco risaputa: a più riprese, infatti, il filosofo tedesco citava parti del poema o rifletteva su alcune caratteristiche dei personaggi. Un interesse che, in linea più generale, è tipico di tutta la cultura Romantica e post Romantica. Nella raccolta di saggi critici di Heinzle e Waldschmidt, Die Nibelungen. Ein deutscher Wahn, ein deutscher Alptraum, si possono infatti ritrovare tutte le teorie che, a cavallo tra il xix e il xx secolo, hanno accompagnato la lettura del Nibelungenlied, nel tentativo di capire se a questo poema poteva essere attribuito o meno il ruolo, all’interno della cultura germanica, di Nationalepos. Difficile, effettivamente, non insignire di tanto significativo riconoscimento il poema dell’Anonimo del Duecento, come chiaramente dimostrano, a titolo di esempio, le numerose orazioni politiche tenute nella Germania pre e post Grande Guerra. Appariva infatti particolarmente efficace paragonare la nazione tedesca, uscita sconfitta dal conflitto del ’14-’18, come Sigfrido pugnalato alle spalle dall’amico Hagen (fu uno dei primi discorsi di Paul von Hindenburg), oppure richiamare all’attenzione del popolo tedesco che proprio Hagen, nei confronti dei suoi signori, sia stato un chiaro esempio di fedeltà estrema e incondizionata verso i propri signori e amici – Nibelungentreue, per l’esattezza, come ricordava nel 1909 il cancelliere Bernhard von Bülow, sancendo l’alleanza con l’Austria.

D’altra parte, proprio il concetto di fedeltà cieca è stato forzosamente ripreso anche da Hitler, altro grande promotore di quella che è la volontà di naufragio come mezzo per conseguire la propria affermazione prima, il proprio superamento poi.

Anche durante il regime, infatti, il Nibelungenlied è stato più volte portato per esempio nel tentativo di spronare nuovamente al combattimento una Germania spossata da una guerra logorante, ormai destinata verso la sconfitta. Particolarmente interessante, in questo senso, è il discorso di Göring del 30 gennaio 1943, a poche settimane dalla disfatta delle armate naziste a Stalingrado.
Noi conosciamo un canto forte, un canto eroico d’una battaglia senza eguali, si chiama “la battaglia dei Nibelunghi”. Anche loro erano asserragliati in una reggia, piena di fiamme e di fuoco, alleviavano la loro sete con il proprio sangue, ma combattevano, combattevano fino all’ultimo. Una simile battaglia là oggi infuria e ogni tedesco ancora tra mille anni pronuncerà con un brivido sacro la parola Stalingrado e ricorderà che laggiù la Germania ha posto il sigillo per la vittoria finale! L’Europa ora comincia forse a capire, tremando, che cosa significhi questa battaglia, comincia a capire che quegli uomini, che laggiù hanno opposto fino all’ultimo una resistenza disperata, salvano non soltanto la Germania, ma anche l’Europa e quegli stati che ancor adesso vegetano in una tranquilla neutralità.
L’io è costantemente sotto attacco, è in pericolo e si trova circondato dai nemici. Si tratta di un altro grande tema, che nella cultura tedesca (riscontrabile anche all’interno dell’Opera nietzscheana) trova terreno fertile: è la sindrome di accerchiamento, che definisce la costante percezione di una minaccia dall’esterno, una sorta di tenaglia pronta a distruggere ogni sogno di grandezza cullato dalla Germania.
In questi dieci anni che hanno visto la costruzione della nuova nazione è però cominciata la guerra dal di fuori contro la Germania, questa Germania che aveva appena concluso le guerre interne, che si era di nuovo saldamente riunita, contro questa Germania è ricominciato l’attacco dall’esterno – e anche questa non è dunque una novità. Ogni volta che la Germania, favorita da una forte leadership, ha voluto rendersi forte e unita oppure è diventata unita e forte, si è scontrata con gli stessi rivali8.

La potenza del mito, come suggerisce Bertram ben prima dell’ascesa del Partito, conferisce una particolare attrattiva all’interno della psicologia popolare, e non a caso durante il Ventennio la propaganda nazista ne fece largo uso, soprattutto durante gli anni critici del Conflitto, vale a dire quando la Germania, dalle cosiddette «guerre di aggressione» dovette passare alla strategia del «non un passo indietro». La visione eroica della Germania solitaria e accerchiata, immagine intrinsecamente nibelungica, affascinava in particolar modo lo stesso Hitler, con un chiaro riflesso, nel concreto, sulle decisioni di natura bellica.
Con l’approssimarsi della fine, anche le tendenze mitologizzanti andarono assumendo sempre più chiara evidenza. La Germania, assalita da tutte le parti, venne stilizzata a epitome dell’eroe solitario, e la propensione, profondamente radicata nella coscienza tedesca, a disprezzo idealizzato per la vita, al romanticismo del campo di battaglia e alla trasfigurazione della morte violenta, venne una volta ancora mobilitata. Le fortificazioni e le posizioni a istrice, che Hitler diede ordine di costituire e di difendere a ogni costo un po’ dappertutto, simboleggiavano, su scala ridotta, quell’idea dell’avamposto perduto, che la Germania emblematizzava nel suo complesso e che sul mondo sentimentale, fondamentalmente pessimistico, sia di Hitler sia dei fascisti in generale, aveva sempre esercitato un’oscura forza d’attrazione; vi confluivano, abbaglianti e operistici insieme, motivi wagneriani, nichilismo germanico e romanticherie decadentistiche: “Soltanto una cosa ancora voglio: la fine, la fine!”. Non fu certo per caso che Martin Bormann, nell’ultima lettera di lui rimastaci e spedita alla Cancelleria del Reich ai primi d’aprile del 1945, ricordasse a sua moglie la fine dei Nibelunghi nella grande sala di Attila, e tutto sta a comprovare che il solerte segretario avesse ripreso anche quest’idea dal suo padrone.
Combattere senza speranza, ma con uno scopo, che in questo caso si presenta come la sopravvivenza di un intero popolo e il suo continuo progresso, è esattamente la tesi sostenuta da Nietzsche per ottenere l’autosuperamento.

Ecco spiegati i costanti appelli al sacrificio nel nome non di un popolo, ma addirittura di un’ideologia che, ormai portata all’apice dell’esaltazione, è diventata la causa suprema di ogni guerra, ponendosi dunque a giustificazione della richiesta di autodistruzione.

Nel suo Il godimento come fattore politico, Žižek parla di «esperienza estatica» di una Comunità, notando proprio come dalla ricerca della morte si creasse un legame particolarmente intimo all’interno dei membri del Partito.
In uno dei suoi discorsi alla folla nazista a Norimberga, Hitler fece un’osservazione autoreferenziale su come doveva venir percepita quella stessa riunione: un osservatore esterno, incapace di fare esperienza della “grandezza interiore” del movimento nazista, vi vedrà solo il dispiegamento di una forza politica e militare esterna, mentre per noi membri del movimento, che viviamo e respiriamo con esso, è infinitamente di più, è l’affermazione del legame che ci unisce intimamente […].
D’altra parte, la spettacolarizzazione della morte, come spiega Fest in Hitler. Una biografia, era «tipico dello stile teatrale del Terzo Reich»:
Il temperamento pessimistico di Hitler ricavava, dalle cerimonie della morte, nuovi, inesauribili effetti abbacinanti, e i culmini di quella demagogia da lui per primo programmaticamente e artificiosamente elaborata si toccavano quand’egli percorreva la Königsplatz di Monaco di Baviera o, durante i congressi del partito a Norimberga, l’ampia Theatergasse, tra cupe musiche di fondo e due fitte ali formate da centinaia di migliaia di schierati, per recarsi a rendere onore ai caduti: in siffatti scenari di una magica suggestività da venerdì santo politicizzato, in cui, esattamente come è stato detto a proposito della musica di Richard Wagner, «lo splendore reclamizzava la morte»11, la concezione hitleriana della politica come fatto estetico trovava la propria piena realizzazione.
Ecco che dunque la losurdiana Kriegsideologie, che già a partire dalla Prima guerra mondiale (si legga, per esempio, il discorso di Natale del 1914 di Max Weber alle truppe) centralizzava l’idea di sacrificio e logoramento come mezzo supremo per ottenere la vittoria, si modifica ulteriormente durante il Ventennio del Reich, estremizzando l’idea di autodistruzione, facendola sconfinare, come scritto poco sopra, su un piano ancor più demagogico. Il già citato Weber, affermava che «per quanto riguarda la Germania, essa è scesa in guerra, anche a costo di perderla, ascoltando la voce del “destino”, in difesa del proprio “onore”». Non poteva pensarla diversamente Hitler, così fortemente attaccato all’idea di un destino supremo che avrebbe portato alla vittoria, ottenuta con il sangue e con il sacrificio.

Anche in questo caso, il retaggio culturale ha sicuramente radici profonde. Lo stesso Nietzsche, in Ecce Homo, ricorda quale sia la propria idea di condurre una guerra:
La mia regola di guerra comprende quattro princìpi. Primo: attacco solamente cose che vincono; in certi casi, aspetto fino al momento in cui vincono. Secondo: attacco solamente cose contro cui non potrei trovare nessun alleato, così son solo, – così comprometto solamente me stesso… Non ho mai fatto un passo in pubblico che non mi compromettesse: questo è il mio criterio del giusto agire. Terzo: non attacco mai persone – mi servo della persona come di una forte lente di ingrandimento, con cui si può rendere visibile una crisi generale, ma sfuggente, difficilmente afferrabile. […] Quarto: io attacco solo cose alle quali non sia connessa nessuna disputa personale o un qualche retroscena di brutte esperienze. Al contrario, per me attaccare è un segno di benevolenza, a volte di gratitudine.
È preferibile attaccare da soli, rischiando di morire, sapendo che la vittoria rimane soltanto un lontano miraggio, piuttosto che invocare l’aiuto di altri. Pur considerando un gesto particolarmente altruistico l’attacco verso il nemico, per Nietzsche la vera natura della guerra trova identificazione in quello che può essere definito egoismo eroico, che conferma l’importanza di un movimento élitario per annullare e superare l’ideale del gregge, moralmente dequalificante l’uomo. Viene rimarcato qui ancora una volta ciò che già permeava lo Zarathustra: l’idea di un sacrificio estremo, preferibile, anzi, alla salvaguardia della stessa persona. Nel capitolo dedicato alla guerra e ai guerrieri, Zarathustra rimarca l’importanza della costante ricerca dello scontro da parte dell’uomo, che, ancora una volta, deve saper accettare la sua rovina:
Dovete amare la pace, quale mezzo di nuove guerre. E la pace breve più che la lunga.Non vi consiglio lavoro, ma lotta. Non vi consiglio la pace ma la vittoria. Il vostro lavoro sia lotta, la vostra pace vittoria!Non si può tacere e restar silenziosi che quando si possiede un arco e la freccia: altrimenti si ciancia e si disputa. Sia la vostra pace la vittoria!Voi dite che la buona causa santifica perfino la guerra? Io vi dico: è la buona guerra che santifica ogni causa.[…]Il vostro amor della vita sia l’amore della vostra più alta speranza: e la vostra più alta speranza sia il più alto pensiero della vita!Ma il vostro più alto pensiero dovete lasciare che ve lo comandi io, e suona: l’uomo va superato.Vivete così la vostra vita d’obbedienza e di guerra! Che importa vivere a lungo? Quale guerriero vuol’essere risparmiato?Io non vi risparmierò, io vi amo profondamente, miei fratelli di guerra!».
Temere la morte non è soltanto un atto di codardia, ma diventa quasi un atto contro natura. Paradossalmente, la vera autoconservazione di sé si persegue soltanto non volendosi autoconservare, andando costantemente alla ricerca del nemico, che mina le sicurezze dell’uomo-soldato. Potenza e rischio di morte si intrecciano nel tentativo di affermare la vita, superandone i vincoli morali imposti da secoli di cristianesimo. Nella stessa maniera, viene elevato sensibilmente il valore del sacrificio a difesa dell’ideologia nazista, sacrificio derivante dall’abnegazione totale richiesta nei confronti del Partito durante le ultime fasi della guerra. E ponendosi perfettamente in linea con quanto scritto finora, e in continuità con l’orazione di un paio di anni prima di Göring, fu Göbbels, il 21 aprile 1945, a esortare alla strenua resistenza, questa volta di Berlino, cercando di richiamare alla memoria quell’intimo legame, come già sottolineato da Žižek, che ha reso i membri del Partito uniti e pronti a morire per la rivoluzione nazionalsocialista.
Il Führer non è fuggito nella Germania meridionale. Egli rimane a Berlino e con lui tutti coloro che ha trovato degni di battersi al suo fianco in questo fatidico momento… Ora, soldati e ufficiali del fronte, voi non state soltanto combattendo la battaglia finale e decisiva del Reich, ma con la vostra lotta state anche portando a compimento la rivoluzione nazionalsocialista. A combattere sono rimasti soltanto gli irriducibili rivoluzionari.
Al Partito non restava che salvaguardare almeno la propria storia, e nel suo delirante desiderio di onnipotenza Hitler cercò in tutti i modi di creare e mantenere un’immagine gloriosa di sé, vedendo nell’eroismo che sfocia nel sacrificio il metodo migliore per poter perseguire questo suo obiettivo.
Hitler, dal canto suo, si era ormai reso conto che la storia era tutto quanto gli era rimasto […] [e] la sua mania di spargere sangue e distruzione si intensificò. Uno dei principali motivi della sua decisione di rimanere a Berlino è quanto mai semplice. La caduta di Berchtesgaden non avrebbe avuto lo stesso significato della caduta di Berlino. E non avrebbe offerto le stesse spettacolose immagini di monumenti distrutti e di edifici in fiamme.
Il binomio gioco-morte caratterizzava sempre di più l’ultimo Hitler, che ormai, quasi noncurante dell’esito del conflitto, si preoccupava soprattutto di promuovere azioni eroiche che avrebbero avuto, secondo un suo già evidenziato disegno, una forte rilevanza storica. Soltanto l’uomo nobile, sembrano concordare Nietzsche e Hitler, gioiosamente protende verso la propria distruzione: la volontà di naufragio, in ultima analisi, permette unicamente agli spiriti più elevati di autosuperarsi e quindi di realizzarsi nell’oltreuomo, che per il Führer altro non era se non l’uomo amante del progresso. L’autodistruzione diventa quindi parte dell’agire di chi ha saputo riabbracciare il dionisiaco, vale a dire lo spirito nobile (ed è proprio in questo passaggio che l’élitarismo nietzscheano prende maggiormente forma) che è stato in grado di risvegliare il senso tragico dentro se stesso: «Voglio mettere in rilievo un ultimo punto di vista: […] un presupposto decisivo per un compito dionisiaco è la durezza del martello, il piacere stesso del distruggere».

Accettando l’idea di distruzione di sé, in nome di una più alta ideologia, l’uomo non può fallire. O meglio, come afferma anche Littell, nel caso specifico è il fascista che non muore, non soccombe mai, anche se dovesse perdere la guerra. Il suicidio di Hitler, in questo senso, ne è la chiara dimostrazione. Decidendo di togliersi la vita, il dittatore tedesco ha evitato, secondo un paradossale ragionamento psicologico, di essere sottomesso al nemico. La famigerata capitolazione, quasi una parola tabù per Hitler, è stata in questo modo scongiurata, permettendo, secondo un pensiero di chiara matrice nibelungica, la salvaguardia del proprio onore.
«Tunc bene navigavi cum naufragium feci». «Ho navigato bene, perché sono naufragato»: il considerare l’autoannientamento come soluzione positiva del dramma della vita è fortemente radicato nell’animo umano, e ha origini particolarmente remote, come denota la frase attribuita da Diogene Laerzio a Zenone di Clizio, tradotta in latino da Schopenauer e ripresa, in più punti, dallo stesso Nietzsche. Tale interpretazione della forza catartica dell’autodistruzione trova ampi consensi nella storia della cultura tedesca, partendo dai Nibelunghi e approdando fino alla prima metà del Novecento.
La volontà di naufragio trova la sua corrispondenza nel senso tragico della vita, che Nietzsche non causalmente rievoca sin dai suoi primi scritti e che, parimenti, corrisponde a un’esaltata propensione verso il culto della guerra riproposto da Hitler durante tutto il Ventennio.

Uno stravolgimento catastrofico è la condizione indispensabile per raggiungere quel punto superiore a ogni esperienza, cui la filosofia nietzscheana anela, e alla cui affermazione contribuisce nella moderna società di massa anche se non in modo esclusivo. Il nazismo, agli occhi della Comunità, ha sempre favorito l’immagine di grande movimento in grado di permettere il raggiungimento di tale scopo, grazie alla carica fortemente rivoluzionaria di cui appare certamente dotato.

Nietzsche, dunque, non è stato precursore dell’ideologia nazista, ma ha semplicemente dato voce al disagio avvertito dall’uomo nell’epoca tardo-ottocentesca, che torna ancor più accentuato dopo la disfatta della Prima guerra mondiale, affermando ulteriormente la volontà di naufragio come espressione catartica della volontà di potenza.

Gli effetti tragici che questa ha portato, tuttavia, sono radicalmente l’opposto rispetto a quanto si voleva perseguire. Lo Zarathustra è l’espressione culturale di questa ideologia, ma la Seconda guerra mondiale ne è drammaticamente diventata la realizzazione nel concreto, superando ogni ipotesi purificatoria o di autoaffermazione, e arrivando a un livello di coinvolgimento tale della popolazione che soltanto a pochi giorni dalla presa di Berlino si è cominciato a considerare realmente il pensiero della resa. La filosofia di Nietzsche precede sì l’ideologia hitleriana, ma non ne è la causa efficiente, nonostante quest’ultima abbia fatto propri alcuni concetti della prima mettendone in risalto in special modo la carica distruttiva.

La volontà di naufragio sembra dunque costituire quel fil rouge che accomuna concezioni, ideologie occidentali ben lontane nel tempo, e che difficilmente (pur spogliandosi da ogni forma di sterile pessimismo) non avrà più un peso specifico all’interno della storia dell’uomo. Con quale intensità, tuttavia, non è dato sapere.
Ma aggiungi anche questo, tu, bizzarro straniero: quanto dovette soffrire questo popolo, per diventare così bello! Ora però seguimi alla tragedia e sacrifica con me nel tempio delle due divinità.

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