venerdì 29 novembre 2019

Non si è mai soli

«La conosci tu la solitudine?
Sì, quella dei poeti e degli impotenti.
La solitudine?
Quale solitudine?
Ma lo sai che non si è mai soli?
E che dovunque ci portiamo addosso
il peso del nostro passato e anche quello del nostro futuro?
Tutti quelli che abbiamo ucciso sono sempre con noi.
E fossero solo loro, poco male.
Ma ci sono anche quelli che abbiamo amato,
quelli che abbiamo amato e che ci hanno amato.
Il rimpianto,
il desiderio,
il disincanto e la dolcezza,
le puttane e la banda degli dei!
La solitudine risuona di denti che stridono,
chiasso, lamenti perduti…
se soltanto potessi godere la vera solitudine,
non questa mia solitudine infestata dai fantasmi,
ma quella vera,
fatta di silenzio e
tremore d’alberi».


- Albert Camus, "Caligola"

domenica 24 novembre 2019

Sei lui, ti credi te

E’ pur nostro il disfarsi delle sere
E per noi è la stria che dal mare
sale al parco e ferisce gli aloè.
Puoi condurmi per mano, se tu fingi
di crederti con me, se ho la follia
di seguirti lontano e ciò che stringi,
ciò che dici, m’appare in tuo potere.
Fosse tua vita quella che mi tiene
sulle soglie – e potrei prestarti un volto,
vaneggiarti figura. Ma non è,
non è così. Il polipo che insinua
tentacoli d’inchiostro tra gli scogli
può servirsi di te. Tu gli appartieni
e non lo sai. Sei lui, ti credi te.

Eugenio Montale - Serenata Indiana

Una poesia di Montale che appartiene alla raccolta Finisterre, carica di significati sul ruolo che gioca la donna, ma anche sull’esistenza del male e la sua forma. Serenata Indiana parte dall’idea del disfacimento tra uomo e donna e dello scioglimento di un vincolo tra essi, evocata dal <disfarsi delle sere> (v.1). L’unione profonda sarebbe possibile solo se la donna fingesse, illudendosi con convinzione, di essere vicina al poeta e se, a sua volta, egli si lasciasse follemente trascinare da lei. Talvolta il poeta potrebbe credere nel rapporto se percepisse che la donna ha davvero il potere di determinare le sue azioni e di concretizzare le sue parole. In realtà, egli non può dare nessun volto alla donna perchè essa fa si che il polipo si insinui in lei e possa servirsi della sua sagoma. Il polipo è una repellente creatura che emerge dagli abissi e diventa emblema del male, ma un male senza forma, che coincide col non conoscibile. Egli agisce insidiosamente per oscurare le relazioni vitali e corrodere l’autenticità dei rapporti umani. Ed ecco che viene evidenziato il senso di impotenza della donna, la quale non ha il dominio delle sue azione e non appartiene nemmeno a se stessa.

Analisi del testo a cura di https://martinascaramozzino.wordpress.com/

venerdì 22 novembre 2019

Il piacere triste dell'invidia (Gustavo Micheletti)

Questi e simili affetti di odio si riportano all'invidia, che perciò non è niente altro che lo stesso odio, in quanto si considera disporre l'uomo in maniera che goda del male altrui, e si rattristi, al contrario, dell'altrui bene.
-- Baruch Spinoza, Etica

Caino uccide Abele per invidia, i figli di Giacobbe perseguitano per invidia il fratello Giuseppe, il Re Saul insegue e vorrebbe uccidere per invidia Davide e i farisei e i sadducei per invidia tramano contro Gesù. Per S. Paolo l'invidia è una delle opere della carne e ci si può accorgere di essere riusciti a neutralizzarla solo quando ci si rallegra con quelli che sono nella gioia e si piange con quelli che sono nel dolore.

S. Tommaso considera l'invidia strettamente collegata alla superbia: se quest'ultima costituisce la prima ragione della caduta degli angeli in una condizione demoniaca, tale condizione è caratterizzata anche dal sentimento dell'invidia. Lucifero e tutti gli altri demoni, infatti, non solo hanno peccato di superbia volendo essere simili a Dio, ma dopo la caduta sono irreversibilmente condannati a essere invidiosi sia della condizione umana sia della beatitudine divina.

Nonostante il ruolo e la gravità che le è attribuita da S. Tommaso, Dante non tematizza questo peccato nell'Inferno attribuendogli uno spazio e una trattazione dedicata e specifica, ma lo fa solo nel Purgatorio. Qui gli invidiosi sono coperti di cilicio e hanno gli occhi cuciti con fil di ferro: stanno seduti con le spalle appoggiate contro la parete della montagna, sorreggendosi a vicenda e ascoltando esempi di umiltà. Se gli occhi chiusi sembrano sottolineare che questo sentimento passa attraverso il senso della vista, il fatto che si reggano a vicenda potrebbe alludere alla circostanza che l'invidia, forse più di qualsiasi altro vizio, è un sentimento socialmente indotto, che dà vita ad una vera e propria catena di relazioni distorte, immaginarie prima ancora che reali.

Anche Metastasio, dopo S. Tommaso, considera in modo perentorio l'invidia figlia della superbia, radice d'ogni vizio e nemica di se stessa, mentre La Rochefoucauld sostiene che, sebbene siamo capaci di vantarci spesso delle nostre passioni, anche delle più dannose o criminose, l'invidia è una passione timida e vergognosa che non si osa mai confessare. Essa può tuttavia dimostrarsi indirettamente un indicatore prezioso, perché l'esserne esenti costituisce il segno più sicuro che si è nati con grandi qualità. Voltaire, invece, si sofferma su aspetti più marcatamente psicologici e sociologici, osservando come chi non ha successo nel mondo finisca col vendicarsi di chi ne ha parlandone male, e sottolineando quindi che questa forma di risentimento scaturisce da una forma d'impotenza sociale.

Durante questo nostro breve riesame critico, vorremmo cercare di comprendere l'origine della particolare forma di soddisfazione che in qualche modo l'invidia deve riuscire a produrre per riscuotere tanto successo da tanto tempo, unitamente al peculiare tipo d'infelicità che porta con sé e in cui spesso si risolve. Poiché le è stata da più parti riconosciuta la peculiarità di essere, a differenza degli altri vizi capitali, un «vizio senza piacere», o una «passione triste», cercheremo qui di appurare specialmente -- dopo un «riepilogo» di alcune posizioni utili per contestualizzare il problema nel quadro dei principali contributi filosofici e storiografici -- se una simile mancanza di piacere sia effettivamente compatibile con la sua diffusione e con le ragioni del suo successo.

L'invidia secondo Bertrand Russell

Di fronte a un tema tanto vasto, su cui tanto è stato scritto e tanto si continua a scrivere, l'inizio di una trattazione, per quanto succinta si proponga di essere, non può che essere accompagnata da qualche titubanza. Fortunatamente, viene in nostro soccorso un saggio scritto da Bertrand Russell oltre mezzo secolo fa, La conquista della felicità, al cui interno un capitolo è dedicato proprio all'invidia. Le considerazioni svolte da Russell in quel capitolo si prestano infatti a fornirci un buon incipit, in quanto vi sono accennate in rapida successione la maggior parte delle problematiche inerenti all'argomento qui in oggetto.

Mentre in una prospettiva cristiana l'invidia costituisce un vizio molto grave e un peccato capitale, perché è la negazione assoluta della carità verso il prossimo, secondo Russell anche in una prospettiva più laica essa si rivela comunque di fatto una fonte d'infelicità per moltissima gente, rappresentando un'inclinazione psicologica e spirituale per molti irresistibile. Russell la considera «una delle più forti cause di infelicità», ma anche una delle passioni umane più radicate e universali». Tra tutte le caratteristiche della normale natura umana essa è «la più deprecabile», perché la persona invidiosa, oltre a volere l'infelicità degli altri, rende infelice anche se stessa, e ciò perché, «invece di trovare piacere in ciò che ha, soffre per quello che gli altri hanno».

Nonostante queste sue caratteristiche decisamente tristi, l'invidia sta per Russell «alla base della democrazia». A differenza di quanto, come avremo modo di vedere, sostiene Nietzsche, Russell non ritiene che al tempo dei primi filosofi greci i germi dell'invidia tendessero a trasformarsi spontaneamente in ammirazione, e a questo proposito ricorda come Eraclito asserisse «che i cittadini di Efeso avrebbero dovuto essere impiccati tutti perché dicevano: «nessuno deve primeggiare tra noi». Il movimento democratico negli stati greci deve essere stato ispirato quasi interamente da questa passione», che caratterizza alla radice anche la democrazia moderna.

Questa particolare forma di malignità -- perché in effetti si tratta di un sentimento essenzialmente maligno -- si manifesta spesso attraverso «l'amore per lo scandalo». Il fatto che molte calunnie vengano credute anche sulla base della più debole apparenza lo testimonia. D'altro canto, «una intransigente moralità serve agli stessi fini: coloro che peccano contro di essa sono invidiati, ed è considerata cosa virtuosa punirli per i loro peccati. Questa particolare forma di virtù trova certamente in se stessa la sua ricompensa».

Non si può escludere tuttavia che, proprio le caratteristiche «incoffessabili» dell'invidia, la sollecitino a dissimularsi con perizia, o almeno molto meglio di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Uno dei suoi travestimenti più efficaci è la commiserazione. A titolo di esempio Russell ci ricorda che nella corrispondenza tra Leibniz e Huygens i due filosofi sono soliti compiangere Newton per la sua pazzia: ««non è triste», si scrivono i due, «che l'incomparabile genio del signor Newton sia oggi offuscato dalla perdita della ragione? ». E questi due uomini eminenti, in una lettera dopo l'altra, piangono lagrime di coccodrillo con evidente soddisfazione. In realtà, l'avvenimento del quale ipocritamente si dolevano non si era verificato, sebbene qualche eccentricità nel contegno di Newton avesse provocato la diceria».

Come dimostrano i comportamenti dei bambini, ma anche quelli di tutte le persone che svolgono la stessa professione, l'invidia è «strettamente connessa alla competizione» e per questo l'abitudine di porsi sempre dei termini di paragone si rivela «fatale», in quanto non fa che alimentarla incessantemente. Se i santi riescono a contrastare questo sentimento con l'altruismo, secondo Russell «l'unico rimedio contro l'invidia per gli uomini e le donne comuni è la felicità», e ciò perché, a suo parere, l'invidia è «in gran parte causata da infelicità sofferte nell'infanzia». Poiché l'imparare ad allargare il proprio cuore e la propria mente è un requisito indispensabile per creare in noi il presupposto di ogni felicità possibile, un simile apprendistato costituisce per Russell anche l'unico metodo valido di cui disponiamo per neutralizzare l'invidia. Quest'obiettivo -- se è vero che si tratta di un «vizio che non dà piacere», di una passione essenzialmente «triste» -- dovrebbe infatti poter essere conseguito da chiunque sia dotato di un sufficiente spirito introspettivo ed autocritico, una volta che sia divenuto consapevole delle implicazioni negative che il cedere a questo sentimento potrebbe avere sulla propria vita.

Il vizio che non dà piacere

Nel suo Dizionario dei vizi e delle virtù, Salvatore Natoli sostiene che l'invidia, «a differenza di ogni altro vizio è in vizio che non da piacere. Nell'invidia l'individuo logora se stesso senza alcun beneficio e si consuma nel desiderio inestinguibile della distruzione dell'altro. E quand'anche l'altro fosse distrutto, la soddisfazione non sarebbe ugualmente raggiunta poiché la fine dell'altro non procurerebbe in alcun modo l'accrescimento di sé. Per l'invidioso vi è delusione anche quando fosse capace di condurre a compimento la propria strategia di distruzione. L'invidioso che distrugge impoverisce il mondo senza riuscire in alcun modo a valorizzare se stesso».

Ma è proprio vero che l'invidia non da piacere? Umberto Galimberti riprende e ribadisce questa tesi di Natoli nel suo Vizi capitali e nuovi vizi, ma ciò sembra contrastare con l'epigrafe che pone all'inizio del capitolo che dedica a questo vizio, di cui tutti hanno fatto esperienza, o per aver invidiato o per essere stati invidiati. Il passo cui Galimberti fa riferimento è tratto dall'Etica di Spinoza: questi afferma, nello scolio della proposizione XXIV della parte III, che l'invidia «non è niente altro che lo stesso odio, in quanto si considera l'uomo in maniera che goda del male altrui, e si rattristi, al contrario, dell'altrui bene».

Stando a quanto sostiene Spinoza, chi è preda dell'invidia è anche capace di trarre una certa soddisfazione da questo stato d'animo, soddisfazione che spiegherebbe sia la sua diffusione statistica sia la sua persistenza nel tempo nella vita degli stessi individui. Galimberti sembra ricondurre una simile soddisfazione al fatto che l'invidia costituisce «un meccanismo di difesa, un tentativo disperato di salvaguardare la propria identità quando si sente minacciata dal confronto con gli altri. Un confronto che l'invidioso da un lato non sa reggere e dall'altro non può evitare, perché sul confronto si regge l'intera impalcatura sociale». Quindi, parafrasando ancora Spinoza, Galimberti ci ricorda come questo sentimento tenda «a contrarre l'espansione degli altri per l'incapacità di espandere se stessi, per cui è un'implosione della vita, un meccanismo di difesa che, nel tentativo di salvaguardare la propria identità, finisce per comprimerla, per arrestarne lo slancio».

Si tratta dunque di «una strategia sbagliata», che nel tentativo di sottrarci a un confronto umiliante lo rinnova con effetti che si rivelano a un tempo distruttivi e autodistruttivi. Ma in cosa consiste allora quella sorta di piacere, o di soddisfazione, che essa deve in qualche modo saper produrre per installarsi con tanta disinvoltura nell'animo umano e per reiterarsi con tanta facilità? Da che cosa deriva questa «passione triste» -- come la definisce Elena Pulcini fin dal sottotitolo in copertina del saggio che le ha recentemente dedicato - e quali possono essere le cause psicologiche della sua della sua persistenza e diffusione all'interno di società e culture tanto diverse?

Il desiderio umano come desiderio dell'altro

Per iniziare a cercare d'individuarne una causa di ordine psicologico, potremmo prendere le mosse da quanto Jacques Lacan ha più volte asserito intorno al desiderio umano. Secondo Lacan il desiderio è desiderio dell'altro, o dell'Altro (con la A maiuscola), a seconda del momento della sua teoria cui vogliamo fare riferimento. In entrambe le espressioni il genitivo ha un valore soggettivo, ma mentre il desiderio concepito come desiderio dell'altro (minuscolo) si realizza in una dimensione immaginaria, nel senso che il soggetto desidera ciò che immagina che qualcun altro desideri -- o, più specificatamente, desideri per lui -- il desiderio dell'Altro (maiuscolo) è quello veicolato dall'ordine simbolico, da un discorso che prosegue nel luogo dell'Altro. In quanto luogo di un discorso in cui il soggetto è comunque implicato, l'Altro è strutturato per Lacan come un linguaggio.

Il punto di aggancio tra la concezione lacaniana del desiderio umano e l'interpretazione che Girard fornisce dell'invidia è costituito dal fatto che già il primo aveva posto la rivalità a fondamento della relazione con l'oggetto. Nel Seminario I, Lacan afferma infatti esplicitamente che «l'oggetto umano è originariamente mediato attraverso la strada della rivalità». La dimensione immaginaria e rivalitaria del desiderio può essere secondo Lacan superata solo mediante l'accesso alla parola di un terzo, solo attraverso il ricorso a quel luogo simbolico di un Altro che è terzo rispetto ai contendenti immaginari, in cui sia possibile accertare e imparare ad accettare, senza rimpianti e recriminazioni, ciò che è tuo e ciò che è mio.

Per i limiti tematici che sono propri di questa breve trattazione non possiamo qui soffermarci con un esame più approfondito sulle implicazioni che la dimensione simbolica, nell'accezione lacaniana, potrebbe avere rispetto al tema dell'invidia. Ci pare tuttavia opportuno gettare almeno uno sguardo alle implicazioni che si possono cogliere in una dimensione «immaginaria», sia perché più intuitiva, e quindi in questa sede meglio commisurata al campo della trattazione (mentre l'esame della dimensione simbolica richiederebbe una disamina ben più ampia del pensiero di Lacan) sia perché più utile per introdurre la riflessione in merito intrapresa dallo studioso francese René Girard, sulla quale ci soffermeremo in seguito più diffusamente.

Ciascuno può rendersi conto di aver fatto esperienza di ciò che s'intende con l'espressione «desiderio dell'altro» se si ricorda di aver osservato dei bambini giocare: se un bambino ne vede un altro con un giocattolo in mano, e soprattutto se lo vede divertirsi con quel giocattolo, pensa quasi istantaneamente che esso sia una grande fonte di divertimento. Il suo desiderio si lascia veicolare dal desiderio dell'altro bambino, quasi lo imita, si identifica con esso. L'altro bambino, il detentore del giocattolo, reagisce generalmente al desiderio del bambino che ne è sprovvisto rafforzando immediatamente il suo atteggiamento possessivo, e se per caso stava incominciando a disinteressarsi al suo gioco subito torna a considerarlo molto importante e a dare chiari segni che proprio lui ne è il legittimo detentore.

Per la verità, questo comportamento sembra diffuso -- forse per ragioni diverse, ma con modalità simili -- anche nel mondo animale. Lo aveva già notato, nel XVIII secolo, Bernard Mandeville. L'autore de La favola delle api considera l'invidia «un composto di dolore e ira» e i suoi sintomi «numerosi e difficili da descrivere come quelli della peste», ma non attribuisce questo stato d'animo soltanto agli esseri umani, anzi: «i cavalli la mostrano nei loro sforzi per superarsi, e i più focosi corrono fino alla morte, per non vedere un altro cavallo davanti a loro. Anche nei cani si può vedere chiaramente questa passione, perché quelli che sono abituati alle carezze non sopportano docilmente che tale fortuna tocchi ad altri» (ivi, p. 89).

Mandeville ci ricorda anche il caso di «un cagnolino di lusso che si sarebbe strozzato con il cibo, piuttosto che lasciarne ad un concorrente della sua stessa razza»; e del resto la capacità di provare qualcosa di molto simile all'invidia non riguarda solo gli animali più nobili e più vicini all'uomo: a chi ha un pollaio, per esempio, sarà capitato di scorgere i segni dell'invidia nel comportamento delle sue galline quando si dirigono con vivo interesse nella direzione di un altro pollo mentre questo, dandosi anche un po' delle arie, assume l'aria di aver trovato qualcosa d'interessate, a prescindere dal fatto che sia o meno commestibile.

Nonostante questa già ventilata estensione del suo possibile campo d'azione, sia Lacan sia Girard riconducono l'essenza di questo sentimento alla struttura mimetica del desiderio umano: noi desideriamo per imitazione ciò che anche altri desiderano. Le mode, gli status symbol, gli stili di vita proposti dai media sembrano fare leva proprio su questa struttura per scatenare la loro efficacia in maniera dirompente e pervasiva, ragione per cui ci pare opportuno soffermarci ora su questa chiave di lettura, in particolare nell'opera di René Girard, che ha dato alla nozione di «rivalità mimetica» ampio spazio e un ruolo centrale all'interno di molti suoi saggi.

La rivalità mimetica

La genesi della dinamica psicologica che rende possibile l'adozione di questa «strategia sbagliata» -- probabilmente derivante dal timore di un mancato riconoscimento sociale -- e quindi anche l'origine della condizione d'impotenza e di spesso misconosciuta sofferenza che caratterizza l'invidia è ricondotta da Girard alla stessa struttura mimetica del desiderio umano. Secondo lo studioso francese, all'origine di questo sentimento vizioso -- nel senso che è destinato a reiterarsi circolarmente -- c'è essenzialmente, come si è anticipato, ciò che definisce «la rivalità mimetica». Il decimo comandamento fornisce una sintesi esemplare per mettere a fuoco questo tipo di rivalità, alla quale ogni altra è riconducibile: «poiché gli oggetti che desideriamo -- scrive Girard -- appartengono sempre al prossimo, è evidente che è quest'ultimo a renderli desiderabili. Nella formulazione del divieto, pertanto, il prossimo deve sostituire gli oggetti, come in effetti avviene nell'ultima parte della frase, che proibisce non più degli oggetti elencati uno a uno, bensì tutto ciò che è del prossimo». Quindi, «per mantenere la pace fra gli uomini, bisogna concepire il divieto in funzione della seguente temibile constatazione: il modello dei nostri desideri è chi sta intorno a noi».

È questo ciò che Girard chiama «desiderio mimetico»: un tale desiderio «non è sempre conflittuale, ma lo diventa spesso, e questo per ragioni che il decimo comandamento rende evidenti. L'oggetto che desidero sull'esempio del mio vicino, egli, il vicino, ha tutte le intenzioni di conservarlo, di tenerlo in serbo per sé, e non se lo lascerà scappare senza combattere. Il mio desiderio verrà contrastato ma, anziché rassegnarsi a spostarsi su un altro oggetto, nove volte su dieci esso recalcitra e diventa più forte, imitando più che mai il desiderio del suo modello».

Alla luce del concetto di «rivalità mimetica» si può dunque comprendere meglio come l'opposizione possa esasperare il desiderio: ciò dipende dal fatto che il materializzarsi di un rivale «sembra confermare la fondatezza del desiderio, l'immenso valore dell'oggetto desiderato. L'imitazione s'intensifica più che mai all'interno dell'ostilità, ma i rivali fanno il possibile per nascondere a se stessi la causa di tale fenomeno». D'altra parte, può accadere anche l'inverso, perché «imitando il suo desiderio io do al mio rivale l'impressione che egli abbia delle buone ragioni per desiderare ciò che desidera, per possedere ciò che possiede, e l'intensità del suo desiderio raddoppia».

Alla luce di queste considerazioni, Girard conclude che «la fonte principale della violenza fra gli uomini è la rivalità mimetica. Essa non è accidentale, ma non è neppure il frutto di un «istinto di aggressione» o di una «pulsione aggressiva»». La rivalità mimetica è infatti in grado di spiegare la maggior parte dei comportamenti aggressivi senza rendere necessaria l'ipotesi della sussistenza di tali presunti istinti o pulsioni. Il fatto stesso che l'ultimo comandamento proibisca il desiderio dei beni del prossimo, dipende dal fatto che esso «riconosce con lucidità in tale desiderio l'elemento scatenante delle violenze proibite nei quattro comandamenti precedenti». In altre parole, «se smettessimo di desiderare i beni del prossimo, non diventeremmo mai colpevoli né di assassinio, né di adulterio, né di furto, né di falsa testimonianza. Se il decimo comandamento venisse rispettato, renderebbe superflui i quattro comandamenti che lo precedono».

Il decimo comandamento costituisce quindi una spiegazione implicita dell'invidia, della gelosia e dell'odio che rendono così simili anche persone molto diverse, tanto che il messaggio fondamentale di Cristo, la lieta novella del Vangelo, ha secondo Girard proprio la funzione fondamentale di «distoglierci dalle rivalità mimetiche». Sotto un certo profilo anche Cristo ci invita a imitare il suo desiderio, ma questo consiste nell' «assomigliare il più possibile al Padre». Differentemente da noi, «Gesù non pretende di possedere un desiderio suo proprio, un desiderio «esclusivamente suo». All'opposto di quel che facciamo noi, egli non si vanta di «non obbedire che al proprio desiderio». Il suo unico scopo è divenire l'immagine perfetta di Dio». Per questo «ci invita a fare ciò che fa lui medesimo, a diventare tutti degli imitatori del Padre non diversamente da lui».

In linea generale, Girard è convinto -- e su questo è d'accordo con Lacan -- che il desiderio umano non sia fondato sull'istinto animale: «una volta che i loro bisogni naturali sono soddisfatti, gli uomini desiderano intensamente ma senza sapere con esattezza che cosa, dato che nessun istinto li guida». Il desiderio non ha un oggetto precostituito, che ne definisca in anticipo la direzione e la dinamica. Per individuare l'oggetto del nostro desiderio, noi dobbiamo quindi «ricorrere agli esseri umani che ci circondano, dobbiamo prendere in prestito i loro desideri».

Indipendentemente dal fatto che intratteniamo tra noi rapporti benevoli o malevoli, questi saranno mimeticamente reciproci, perché l'imitazione, la presa in prestito del desiderio altrui, costituisce la molla fondamentale del desiderio umano. Alla luce di questa tesi centrale, si possono ridefinire le ragioni che determinano i conflitti tra gli uomini: queste ragioni non dipendono da una «perdita di reciprocità», quanto da uno «slittamento, dapprima impercettibile e poi via via più rapido, dalla buona alla cattiva reciprocità». Così, individui che fino a qualche momento prima si stavano scambiando cortesie, poco dopo si trovano a scambiarsi perfide insinuazioni e ingiurie senza che per questo venga meno la reciprocità mimetica che regola i loro rapporti.

Questa diviene quindi, nella teoria di Girard, il fattore fondamentale non solo per spiegare l'origine dell'invidia, ma anche per spiegare le relazioni tra gli esseri umani in generale. Essa sta alla base di ogni società e spiega anche la violenza che può sempre insorgere tra loro. La cultura moderna ha sottovalutato questo fattore cruciale e nel passato gli unici testi che gli riconoscono un ruolo fondamentale sono anche gli unici che sanno suggerire un antidoto efficace. Nei vangeli, infatti, e in particolare nel «Discorso della montagna», si possono leggere le seguenti raccomandazioni, le uniche che secondo Girard possono rivelarsi realmente efficaci: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e Dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra; e a chi vuol portarti in tribunale per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello (Matteo, 5, 38-40) ».

Insieme al passo di S. Paolo cui abbiamo fatto riferimento e per il quale riesce a rendersi immune dall'invidia solo chi si rallegra con le persone felici e partecipa al dolore di chi soffre, il discorso della montagna, che anche per Tolstoy costituisce l'essenza, lo snodo cruciale, del cristianesimo, assume così per Girard il valore e il significato di un baluardo ultimo e compiuto contro questo sentimento tanto sottile quanto diffuso.

Il teatro dell'invidia

La «rivalità mimetica» costituisce secondo Girard anche «la materia prima di tutta la letteratura drammatica e romanzesca. Gli unici a renderle giustizia sono i grandi scrittori creativi, i poeti tragici greci, Shakespeare e Cervantes, Molière e Racine, Dostoevskij e Proust, e pochi altri. Solo i grandi capolavori del romanzo occidentale riconoscono il primato della rivalità mimetica».

La presenza ad un tempo creativa e tragica della rivalità mimetica può essere riscontrata, in particolare, in tutta l'opera di Shakespeare. Nel Sogno di una notte di mezza estate, per esempio, le due protagoniste femminili, Ermia ed Elena, «hanno sempre imitato gli stessi modelli, e ognuna delle due ha sempre fatto da modello all'altra. Il risultato è una perfetta unità, espressa in modo così appropriato dalla metafora delle due ciliegie sullo stesso gambo: Ermia ed Elena hanno la stessa voce, lo stesso modo di pensare, le stesse mani, le stesse preferenze. [...] Esse fraintendono quel che accade esattamente nella stessa maniera. Nessuna delle due può credere che l'altra abbia tradito in alcun modo l'amicizia o l'amica, e nessuna lo ha veramente fatto: ciascuna si sente tradita dall'altra. Doppi è il termine della teoria mimetica per indicare questo rapporto, che non è immaginario, come sostiene Lacan, ma assolutamente reale, e costituisce la base di ogni fraintendimento nella commedia e di ogni conflitto nella tragedia».

Prima che la storia si risolva nel suo lieto fine, la relazione tra i quattro ragazzi innamorati è sospesa e complicata dalla «rivalità mimetica»: «Elena è altrettanto bella di Ermia, e lo sa -- scrive Girard -- ma ciò non basta a consolarla. I fatti oggettivi sono una cosa, le infatuazioni mimetiche un'altra: se non devono necessariamente contraddirsi, neppure devono necessariamente coincidere. Nei rapporti umani, la mimesi è il fattore dominante. Una sconfitta mimetica può distruggere la stima che una ragazza ha di sé, indipendentemente da quanto bella sia «in realtà»».

Dunque Elena desidera avere Demetrio, che è innamorato di Ermia: per questo vorrebbe essere come lei, in quanto mediatrice del suo desiderio. Demetrio stesso, l'oggetto del desiderio, si rivela «poca cosa in confronto al modello che gli ha conferito il suo valore», tanto che, in presenza di Ermia, la stessa figura dell'amato sembra ridursi a mero pretesto.

Questo desiderio di essere un altro costituisce la fonte originaria di ogni desiderio, oltre che in Shakespeare, anche in Dostoevskij e Proust. In Menzogna romantica e verità romanzesca, Girard arriva a sostenere che l'oggetto del sentimento amoroso «non è che un mezzo per raggiungere il mediatore», colui che può accedere all'oggetto del sentimento amoroso e che può consentire al soggetto in questione un analogo accesso nel caso che questi si identifichi mimeticamente col mediatore stesso. «È all'essere del mediatore che mira il desiderio. Proust paragona alla sete questo desiderio atroce di essere l'altro», sete che spinge l'eroe proustiano, così come l'eroe dostoevskijano, a cercare «di assorbire, di assimilare l'essere del mediatore», e ciò perché è l'essere del mediatore che costituisce il vero oggetto del desiderio, in quanto questi ha le chiavi per accedere all'oggetto del sentimento amoroso.

Per quanto possiamo considerare una simile dinamica ossessiva o patologica, essa rivela secondo Girard la vera natura del desiderio umano in generale. Anche il diffuso convincimento in base al quale in amore vince chi fugge è spiegabile con lo stesso principio: «perché un uomo maltrattato come lo è Demetrio da Ermia dovrebbe restare attaccato con tanta disperazione a colei che lo perseguita? In un contesto mimetico, il motivo è semplicissimo: il successo della rivalità estingue il desiderio, il suo fallimento lo esaspera. [...] Demetrio ama Ermia perché lei ha nei suoi confronti una indifferenza sdegnosa; Elena ama Demetrio per lo stesso motivo. Quale maestra di strategia erotica, Ermia è più competente di quanto pensi, ma il messaggio va oltre la capacità di comprensione di Elena, come si deduce dalla sua reazione incongruente: "Ah, potesse il mio sorriso imparar dal tuo cipiglio!"». Più Ermia odia e disprezza Demetrio, più lui le «rende amore» e le va appresso, più Elena l'ama più lui la detesta.

A conclusione della sua analisi del Sogno di una notte di mezza estate, Girard osserva che i quattro innamorati «enunciano a chiare lettere il destino tragico che al culmine della notte è sul punto di inghiottirli tutti. Un destino che, se evitano a malapena, è per la fortuna di appartenere a una commedia, e non alla tragedia che certamente si meritano e fanno di tutto per provocare».

La rivalità mimetica, alla fine, dopo aver trionfato per tutta la vicenda, si scioglie in due relazioni amorose; ma il voler assomigliare a ciò che sembrava poter fornire un modello di successo e a un possibile mediatore efficace per la realizzazione del proprio desiderio avrebbe rischiato, se non si fosse trattato di una commedia, di far naufragare la vita dei due protagonisti in un sicuro fallimento. Il volersi impossessare a tutti i costi della chiave che può consentire l'accesso al desiderio della persona amata pone infatti il soggetto umano all'interno di una dinamica psicologica in cui è destinato a non riconoscere le ragioni e i moventi di ciò che sente e desidera, spingendolo nel vicolo cieco di un infinito rispecchiamento mimetico.

L'invidia e il desiderio di uguaglianza

Secondo Aristotele l'invidia tende ad insorgere rispetto a persone che consideriamo uguali a noi: essa è infatti «un dolore conturbante e riguardante la buona fortuna», ma non quando questa è immeritata, come accade invece allorché si prova indignazione, bensì quando è meritata e a provocarla è «un nostro simile o pari». L'uomo virtuoso sa però opporre al sentimento che può essere innescato da questa circostanza il suo senso di giustizia, e così come non potrà addolorarsi per la punizione subita da chi si è macchiato di qualche colpa grave, si rallegrerà «della buona fortuna di coloro che la meritano». Sia l'indignazione verso coloro che godono di una fortuna immeritata, sia il rallegrarsi per la buona sorte di persone che l'hanno meritata costituiscono stati d'animo propri dell'uomo onesto, che è altresì portato ad affliggersi e a provare pietà per coloro che sono immeritatamente sfortunati. Viceversa, chi è disonesto tende ad addolorarsi per il bene meritato da un individuo a lui simile e «godrà della privazione e della distruzione di quel bene».

La virtù è dunque per Aristotele esente da invidia, ma in mancanza di un'indole onesta questo sentimento tende a insorgere proprio rispetto a persone che si considerano «nostri pari». Francesco Bacone sembra sviluppare questa posizione quando sostiene che si è proclivi a invidiare coloro che sono a noi più simili e prossimi, «quando questi sono innalzati».

Passione ammaliante e seduttiva, l'invidia secondo Bacone è solitamente presente nelle persone curiose, perché queste sono generalmente malevole, e come loro «va a spasso, e percorre le strade, e non rimane a casa». Tra tutte le passioni essa -- per quanto non sia esente da riflessi positivi quando è pubblicamente impegnata a scongiurare l'accumulo di un potere eccessivo da parte di chi un potere detiene -- è la più vile e depravata, un vero attributo del diavolo; tanto che anche la sua azione, come quella del diavolo, è «importuna e continua», [...] «"non si prende vacanze", perché è sempre al lavoro su uno o su un altro».

L'invidia è comunque per Bacone sempre congiunta col paragonarsi»: infatti, «quando non c'è paragone, non c'è invidia». È proprio in quanto tende a paragonarsi a chi è portatore di qualche virtù che la persona invidiosa auspicherà il suo danno: «un uomo, che non ha alcuna virtù in sé, invidia sempre la virtù negli altri; perché gli animi degli uomini si nutriranno o del proprio bene, o del male altrui; e chi manca dell'uno, si ciberà dell'altro; e chi non può sperare di raggiungere la virtù d'un altro, cercherà di pareggiarlo deprimendone la fortuna».

Questo desiderio di «pareggiare» ogni differenza e annullare gli effetti di ogni virtuosa eccellenza sta dunque all'origine, per Bacone, di questo sentimento sostanzialmente malevolo, ma il ruolo di questa sorta d'inclinazione parificatoria è ulteriormente evidenziato anche da Kant, che considera l'invidia (livor) come una «tendenza a provare dolore per il bene degli altri anche quando tale bene non reca alcun danno al proprio bene». Essa «consiste in «un rancore che scaturisce dal vedere messo in ombra il nostro bene da quello altrui; e questo perché sappiamo apprezzare il bene e rendere percettibile quest'apprezzamento non misurando il bene secondo il suo valore intrinseco, ma soltanto raffrontandolo al bene altrui. [...] Le spinte dell'invidia risiedono dunque nella natura dell'uomo e soltanto quando erompono l'invidia si trasforma nell'odioso vizio di una passione rancorosa che tormenta chi vi si abbandona e che tende alla distruzione, se non altro auspicata, della felicità altrui. Essa è quindi contraria sia al dovere dell'uomo verso se stesso sia a quello verso gli altri».

L'esigenza di raffrontare i propri beni con quelli altrui avvertita dalle persone invidiose è sottolineata anche da Alexis de Tocqueville, il quale osserva come l'invidia si rafforzi man mano che cresce l'uguaglianza, mentre Shopenhauer, sebbene consideri l'invidia un sentimento naturale per l'uomo, pensa che sia un vizio e una disgrazia allo stesso tempo e che costituisca «l'anima dell'alleanza dovunque fiorente e tacitamente stipulata, senza previa intesa, di tutti i mediocri contro il singolo individuo eccellente di qualsiasi specie».

Nietzsche -- che conosceva bene il pensiero di Aristotele, Kant e Schopenhauer, ma che conosceva e apprezzava anche Tocqueville -- sembra riprendere e voler sviluppare quest'ultima tesi, dato che per lui i deboli e i compassionevoli nutrono invidia nei confronti di tutti coloro che sanno dire sì alla vita, e ciò proprio nel tentativo di abbassarli alla loro condizione di mediocrità. Così i cristiani, i democratici, gli ugualitari, i roussoniani di ogni specie e i loro epigoni, risultano ai suoi occhi animati da un risentimento che li induce a rifugiarsi in una morale gregaria quale unica protezione efficace contro se stessi.

«La gioia per il male altrui -- scrive Nietzsche -- nasce da ciò, che ognuno, sotto più aspetti a lui ben noti, non sta bene, ha preoccupazione o pentimento o dolore: il danno che colpisce l'altro rende quest'ultimo uguale a lui, riconcilia la sua invidia. Se egli stesso invece sta proprio bene, accumula tuttavia nella sua coscienza l'infelicità del prossimo come un capitale per impiegarlo, nel caso di una sopravveniente infelicità propria, contro di essa: anche così egli prova «gioia per il male altrui». I sentimenti rivolti all'uguaglianza proiettano dunque il loro criterio nel campo della fortuna e del caso: gioia per il male altrui è l'espressione più comune per la vittoria e il ristabilimento dell'uguaglianza, anche nel superiore ordinamento del mondo. Solo da quando l'uomo ha imparato a vedere negli altri uomini suoi uguali, ossia dalla fondazione della società, esiste gioia per il male altrui». L'invidia, quindi, che «nello stato di natura sarebbe difficilmente comprensibile», nasce specialmente, secondo Nietzsche, là dove «l'uguaglianza è penetrata ed è durevolmente fondata», e ciò perché «l'invidioso avverte ogni innalzarsi di un altro al di sopra della misura comune e lo vuole riabbassare fino ad essa -- o vuole levarsi fino a lui».

D'altra parte, accade anche un fenomeno apparentemente inverso, perché man mano che le differenze sociali aumentano, l'invidia tende ad abbandonare il suo status di sentimento basso e strisciante per diventare -- come scrive Remo Bodei -- «ardita e ostentata». Il risentimento che la caratterizza e la nutre, e che consiste in un misto d'impotenza e di desiderio di vendetta, «è per Nietzsche destinato a crescere, perché le differenze sociali appaiono un'offesa cui non si riesce a porre rimedio. [...] Non tollerando ciò che si eleva al di sopra della mediocrità, la coscienza gregaria considera l' 'essere zero' del singolo una virtù. L'uguaglianza, che presuppone il confronto sospettoso di tutti con tutti, conduce perciò a negare l'esistenza di qualsiasi superiorità gerarchica tra gli individui e ad abbassare i forti e i migliori allo stesso livello dei meschini e degli invidiosi, i quali considerano tutti gli uomini sostanzialmente uguali, senza pensare che -- se la loro materia è la stessa -- la loro consistenza è invece profondamente diversa».

Diversamente da quanto accade durante l'era cristiana, nella civiltà greca precristiana, e in particolare in quella presocratica, l'invidia, piuttosto che essere percepita come una colpa, tendeva secondo Nietzsche a trasfigurarsi spontaneamente in ammirazione. In particolare, per Nietzsche sarebbe proprio il Cristianesimo, che pure annovera l'invidia tra i peccati capitali, ad aver dato a questo vizio un impulso decisivo. Nel mondo Greco precristiano si tendeva infatti ad ammirare la grandezza dei migliori, piuttosto che a invidiarla, e l'ammirazione, lungi dal costituire una forma di asservimento o di subordinazione, costituisce il tentativo di assimilare e fare nostre le qualità che si riconoscono superiori alle proprie. Gli avversari allora potevano essere combattuti e anche uccisi, ma al tempo stesso il loro valore veniva sempre riconosciuto e apprezzato: «la relazione sociale era contrassegnata da un forte antagonismo, ma insieme scevra da invidie». Quando poi al paganesimo greco-romano, che era capace di ammirare la virtù, subentra il cristianesimo, «che diffonde il principio dell'uguaglianza fra tutti gli uomini», nasce l'invidia. Quando infatti il cristiano, che si sente parte di una comunità di eguali di fronte a Dio, si accorge che una persona s'innalza sopra gli altri per le sue qualità morali e spirituali, tende a riabbassarlo al livello medio della comunità, perché non tollera che «agli uguali le cose non vadano in modo uguale».

Se prendiamo sul serio l'ipotesi -- ripresa anche da Helmuth Schoeck, ma, come si è visto, avanzata prima di lui da molti altri -- secondo cui l'invidia è un fenomeno legato alla prossimità sociale, per cui «vengono invidiati soltanto coloro con cui è realisticamente possibile un confronto», allora la comunità di eguali di cui parla Nietzsche costituirebbe in effetti un terreno decisamente fertile per la sua universale affermazione, e forse il segno del suo trionfo. Questo sentimento può tuttavia -- come si è accennato -- essere innescato tanto da una uguaglianza che si è già sotto qualche profilo realizzata, sia da un desiderio di uguaglianza.

La tendenza a conseguire quella sorta di livellamento che è implicita nell'invidia era del resto già stata evidenziata, tra gli altri, anche da Marx, che la considerava una delle ragioni che potevano alimentare sia lo spirito di concorrenza che contraddistingue il regime capitalistico sia l'aspirazione a un certo tipo di comunismo. Marx riteneva infatti che «l'invidia universale, che si trasforma in una forza, non è altro che la forma mascherata sotto cui si presenta l'avidità, e in cui trova soltanto in un altro modo la propria soddisfazione. L'idea di ogni proprietà privata come tale è per lo meno rivolta contro la proprietà privata più ricca sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento, tanto che questa stessa invidia e questa stessa tendenza al livellamento costituiscono persino l'essenza della concorrenza. Il comunismo rozzo non è che il compimento di questa invidia e di questo livellamento partendo dalla rappresentazione minima. Egli ha una misura determinata e limitata. Proprio la negazione astratta dell'intero mondo della cultura e della civiltà, il ritorno alla semplicità innaturale dell'uomo povero e senza bisogni, che non solo non è andato oltre la proprietà privata ma non vi è neppure ancora arrivato, dimostrano quanto poco questa soppressione della proprietà privata sia una appropriazione reale».

Schoeck concorda parzialmente con Marx nel ritenere che l'invidia, di fronte alle prerogative, alla ricchezza e al potere di alcuni individui privilegiati, può caratterizzare tanto le società capitalistiche e liberali che quelle comuniste, anche se non restringe il caso in cui queste ultime possono esserne motivate e afflitte a quel tipo di comunismo che Marx definisce «rozzo» e che non costituisce a suo avviso l'autentica alternativa al capitalismo. L'invidia sociale si manifesta però secondo Schoeck anche, e forse soprattutto, attraverso un diffuso conformismo, che induce tra l'altro a considerare il tempo che ciascuno dedica a se stesso, lo stile di vita di coloro che conducono un'esistenza piuttosto solitaria e appartata, come elementi non funzionali alla vita sociale e in qualche modo persino inquietanti o addirittura pericolosi, in quanto si sottraggono al controllo che lo stesso conformismo vorrebbe esercitare sulle loro vite individuali e sulle loro attività più libere e autonome.

Riportando esperimenti condotti negli anni cinquanta su due campioni di cittadini francesi e norvegesi, Schoeck attesta che il loro conformismo (specialmente quello dei secondi) si era dimostrato tanto consistente da indurli a negare -- dopo che erano stati messi al corrente delle opinioni, antitetiche e prevalenti rispetto alle proprie, di un ipotetico e nutrito gruppo di individui -- ciò che gli era in un primo momento sembrato più evidente. Questo conformismo di fondo costituirebbe per Schoeck una sorta di espediente difensivo per prevenire gli effetti dell'invidia sociale a cui esporrebbe il manifestare opinioni differenti da quelle dominanti nel proprio gruppo sociale di riferimento.

Anche la tendenza a condurre una vita solitaria esporrebbe ai medesimi rischi: «il solitario ha innanzi tutto a che fare con l'invidia di coloro che non sopportano che egli si affranchi dalla società. Si aggiunge poi la curiosità, o l'invidia, per ciò che l'individuo può intraprendere nella sua solitudine: non creerà o non mediterà forse qualcosa che lo elevi sugli altri? Porterà a termine il suo scritto, il suo libro, il suo lavoro domestico? Chi pertanto riserva a se stesso il suo tempo personale, o meglio, una particella del tempo limitato della sua vita, per i suoi scopi liberamente scelti, urta gli altri che si sentono esclusi e lo invidiano già per un fatto semplicemente esistenziale; infatti egli crea la proprietà più elementare, vale a dire l'esperienza individuale del tempo personale della sua vita, in altre parole, qualcosa che non riuscirà ad avere finché non oserà sottrarsi alla presenza degli altri. In fondo, ogni persona che preferisce far società con se stessa piuttosto che con gli altri costituirà sempre uno scandalo».

Se le persone che vivono in maniera personale, creativa e feconda la propria solitudine possono costituire casi socialmente perturbanti, il disagio manifestato dalle persone invidiose può derivare proprio dalla pressione che la società esercita sul loro modo di pensare e di sentire quando si tratta di reagire a tale pressione. Natoli, per esempio, considera in definitiva l'invidia come «quel sentimento che non sopporta il proprio limite naturale in forza di una ragione sociale, perché è la società che decide del valore degli individui». Le società capitalistiche tenderebbero in questo senso a rafforzare questo vizio, perché gli individui potrebbero meglio saper accettare i propri limiti se non avvertissero il rischio di poter divenire per questo socialmente irrilevanti in una società che fa della competizione la sua norma motrice. In questo contesto l'invidia si rivela una sorta d'impotenza relazionale, che sorge dal confronto implicito che l'individuo, anche inconsapevolmente, propone tra le sue caratteristiche più peculiari e quelle da cui passa ogni riconoscimento da parte della società.

Questa «è la ragione -- secondo Galimberti, che riprende e sviluppa l'interpretazione fornita da Natoli -- per cui l'invidioso è costretto a nascondere il suo sentimento e a non lasciarlo mai trasparire, perché altrimenti darebbe a vedere la sua impotenza, la sua inferiorità e la sua sofferenza. Per cui l'invidia, più che un vizio capitale, è un indotto sociale, e, fatta salva l'istanza di giustizia che può promuovere, è un sentimento 'inutile' perché non approda al recupero della valorizzazione di sé, 'doloroso' perché rabbuia e impoverisce il mondo, e per giunta è un sentimento che bisogna tenere 'nascosto', senza quindi il conforto che può venire dalla comunicazione».

Anche in questo caso, naturalmente, abbiamo delle riserve, in particolare rispetto alla scelta degli aggettivi «doloroso» e «nascosto»; ma poiché queste riserve sono riconducibili a quelle già annunciate, rinviamo ulteriormente la loro formulazione e argomentazione agli ultimi due capitoli.

L'invidia esistenziale e la morale degli schiavi

L'invidia è, anche per Kierkegaard, il sintomo di una mancanza di carattere e tende a livellare tutto per celare tale mancanza, elaborando strategie idonee ad abolire -- come osserva Elena Pulcini -- «ogni pretesa di distinzione ed eccellenza». In questo modo, «essa dà origine a una socialità che si costituisce all'insegna di un'aurea mediocritas nella quale a nessuno deve essere concesso di innalzarsi al di sopra della rassicurante uniformità della massa».

Queste considerazioni risultano consonanti con altre per molti versi simili -- come in parte si è visto -- di Nietzsche, per il quale «la gioia per il male altrui è la vittoria più comune per la vittoria e il ristabilimento dell'uguaglianza, anche nel superiore ordinamento del mondo». Per questo, «quanto più l'eguaglianza si estende all'intero tessuto sociale tanto più l'invidia assume la sua forma di «cattiva Eris»: quella cioè che si adopera subdolamente per sminuire e ridimensionare l'altro, per rimetterlo, per così dire, al proprio posto e riconsegnarlo a una grigia in distinzione».

È da qui, possiamo aggiungere, che hanno origine quelle strategie insidiose, come la maldicenza e la calunnia, o semplicemente la svalutazione dell'altro mascherata da pretese di oggettività di giudizio, che l'invidia pone in atto per ristabilire l'equilibrio. Ed è qui, soprattutto, che nasce quel sentimento di soddisfazione di fronte al male dell'altro che è la «gioia maligna»», grazie alla quale si può trarre piacere dalla sfortuna o dalla sconfitta del prossimo.

La morale del risentimento, «la morale degli schiavi ha bisogno -- scrive Nietzsche -- sempre e in primo luogo di un mondo opposto ed esteriore, ha bisogno, per esprimerci in termini psicologici, di stimoli esterni per potere in generale agire -- la sua azione è fondamentalmente una reazione. Si ha il contrario nel caso di una maniera aristocratica di valutazione. Questa agisce e cresce spontaneamente, cerca il suo opposto soltanto per dire sì a se stessa con ancora maggior gratitudine e gioia.72 [...] Mentre l'uomo nobile vive con piena fiducia e schiettezza davanti a se stesso (Ghennaios «nobile di nascita» sottolinea la nuance «schietto» e fors'anche «ingenuo»), l'uomo del ressentiment non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con se stesso».

Il risentimento di cui è capace l'uomo nobile si esaurisce presto in «un'azione subitanea», che «non intossica». Come accadeva a Mirabeau, egli non ha memoria delle proprie sciagure né degli «insulti e infamie commesse contro di lui», e se non è in grado di perdonare è solo perché si dimentica dell'offesa ricevuta: «un tale uomo con un solo strattone si scuote di dosso appunto molti vermi che in altri invece fanno il loro covo; qui soltanto è altresì possibile, posto che sia in generale possibile sulla terra, -- il vero «amore per i propri nemici» .

Quelli che per Tolstoy costituiscono i motti per eccellenza cristiani -- come «ama il tuo nemico», e «non rispondere al male con il male» -- risultano così realizzabili secondo Nietzsche solo dagli individui che non si accorgono nemmeno dell'invidia degli altri nei loro confronti e che sono tanto lontani dal provare risentimento che non si accorgono nemmeno delle offese ricevute.

Sviluppando queste ed altre riflessioni nietzchiane a queste simili che abbiamo sopra estesamente riportato, anche Max Scheler riconduce l'invidia alla condizione psicologica del risentimento, a quella sorta di «auto-avvelenamento» che sa provocare, a quella svalutazione o falsificazione delle tavole dei valori che prelude all'avvento di una morale di schiavi. Sulla scia di Nietzsche, Scheler distingue due tipi fondamentali di uomini: il primo, quello signorile, essendo consapevole del proprio valore, è capace di atti coraggiosi e anche rischiosi, tende ad amare il mondo e la vita e non è incline a confrontarsi con gli altri né a provare invidia nei loro riguardi; il secondo tipo, quello borghese, è invece un essere che tende a svalutarsi, è perennemente impaurito e teme il pericolo, è portato a paragonarsi sempre agli altri, a catalogarli e a interpretarne le azioni in modo da poter giustificare e attenuare la propria invidia nei loro confronti.

Più l'invidia è impotente, più è devastante e carica di risentimento. Essa si rivela un sentimento impotente al massimo grado quando ha per oggetto dei valori non acquistabili. Più che invidia verso ciò che una persona può avere, in questo caso essa si rivolge all'essere, si dirige contro l'esistenza stessa d'una persona. Questo tipo d'invidia può perdonare qualcuno per ciò che ha, ma non per ciò che è, ogniqualvolta questi, con la sua semplice esistenza, possa mettere in discussione i principi e i valori su cui si fonda il proprio approccio alla vita.

«L'invidia più impotente è la più terribile -- scrive Scheler. L'invidia che produce la forma più acuta di risentimento, è perciò l'invidia che si volge contro la natura e l'esistenza individuale di un'altra persona: l'invidia esistenziale (Ezistenzialneid). Questa invidia va sussurrando senza posa: «posso perdonarti tutto, ma non il fatto che ci sei e sei ciò che sei, e che io non sono ciò che tu sei».

Questa invidia esistenziale -- precisa Schoeck commentando il passo di Scheler -- che fa scattare la più forte forma di risentimento, «che prende come bersaglio la natura e l'essere individuale di una persona estranea», rifiuta l'altro e lo perseguita perché non può perdonargli di essere ciò che è, per il fatto che la sua stessa esistenza è vista «come oppressione, rimprovero, temibile limitazione della propria persona».

Il piacere dell'invidia condivisa

La psicoanalista inglese Melanie Klein considera l'invidia un sentimento che il bambino sperimenta fin dalla nascita. Se coniugata alla gratitudine, può essere superata e trasformarsi in un sentimento propositivo e costruttivo, ma quando questa integrazione non si verifica, allora la tendenza del bambino sarà quella di attaccare l'oggetto desiderato fino a distruggerlo. A differenza della gelosia, che vorrebbe il possesso integrale dell'oggetto e costituisce pur sempre l'espressione di una pulsione vitale, l'invidia secondo la Klein ha una vocazione essenzialmente aggressiva, perché tende a distruggere lo stesso oggetto desiderato quando non può ottenerlo. Questa aggressività, quando raggiunge il suo obiettivo, può minare «la fiducia dell'individuo di poter stabilire in futuro rapporti sinceri, di poter amare e di essere buono», e a causa di questa disperazione di poter instaurare rapporti sinceri e autentici con gli altri la persona invidiosa diviene insaziabile, il suo atteggiamento distruttivo e persecutorio: «non può essere mai soddisfatta perché la sua invidia scaturisce dall'interno e perciò trova sempre un oggetto su cui concentrarsi».

L'invidia si rivela in questo senso come una manifestazione di ciò che Freud definiva come «pulsione di morte». Questa tende a realizzare una situazione di massima entropia, di massima indistinzione e di quiete irreversibile, riducendo così ai minimi termini, indebolendo o cancellando, i fattori che caratterizzano qualsiasi struttura omeostatica. In virtù di tale pulsione tutti i componenti di un insieme tendono così a disporsi in un modo il più possibile disordinato all'interno di uno spazio o di un contesto dato, nel quale vengono svalutati tutti quegli elementi che potrebbero determinare una qualche forma di ordine o gerarchia.

Si è visto come -- per Nietzsche, ma non solo per lui -- l'invidia aspiri più o meno consapevolmente a realizzare una condizione di uguaglianza in cui nessuno debba sentirsi inferiore a nessun altro, o perlomeno che sia in grado di produrre questa illusione. Se la morte, come scrive Seneca, «rende tutti uguali» (Aequat omnes cinis) l'invidia sembra nutrire un'aspirazione simile. Come la morte, anche l'invidia tende a uguagliare tutto, a intraprendere cioè, in modo spontaneo quanto maldestro, il tentativo che la morte porta con successo a compimento. Il conformismo che le è connaturato, il suo implicito spirito gregario, il suo desiderio di omologazione e la sua stessa dipendenza da valori omologanti, ne fanno una sua preziosa alleata.

Anche lo spirito che anima la competizione e la concorrenza, il desiderio di superare l'altro, sono animati e nutriti da questo sentimento omologante e tendente a produrre entropia: chi lo asseconda accetta implicitamente che il risultato di un confronto competitivo sia la misura anche del proprio valore. Per trasformare la vita in una continua competizione dove si mira a superare un concorrente o sconfiggere un avversario, bisogna infatti prima accettare di confrontarsi sul suo stesso campo, e quindi assomigliargli almeno quanto basta per condividere le regole del gioco e arrivare a scambiarle per vere e proprie regole esistenziali. La subordinazione della civiltà occidentale a quello che Marcuse definiva «principio di prestazione» -- un principio che è per eccellenza mimetico e competitivo -- testimonierebbe anch'essa, in questo senso, la rilevanza che la logica conformista dell'invidia assume nella società contemporanea.

L'esserne immuni -- pur senza pretendere di ignorarne la dinamica e le attrattive -- costruisce non solo, come pensava La Rochefoucauld, il segno più sicuro che si è nati con grandi qualità, ma anche che si è capaci di assecondare le pulsioni vitali piuttosto che quella di morte, che si sa amare la vita e che non si ha bisogno di commisurarsi incessantemente con un ordinamento -- gregario e competitivo a un tempo -- che tende a produrre crescente entropia e a uniformarci all'altro, o a uniformare questo a noi, appiattendo le differenze e impedendo all'individuo di scoprire quelle che sono le sue peculiarità e vocazioni più profonde.

Se l'invidia risulta la disposizione d'animo forse più antitetica all'amore cristiano, è forse perché, come anche Dante sembra suggerire, essa è capace di riprodursi ed estendersi dando vita ad una vera e propria catena umana, fatta di fraintendimenti e misconoscimenti reciproci e alternati, di avversioni malcelate e di proiezioni mimetiche poi prontamente rinnegate.

Essa costituisce tuttavia un inciampo che può rivelarsi menomante e in qualche modo paralizzante anche in altre prospettive spirituali, sia laiche che religiose. Nel buddismo, per esempio, può contribuire a strutturare quel velo d'illusioni e false identificazioni che si può superare provvisoriamente solo con la meditazione e con la sospensione del principium individuationis, e in modo definitivo solo con il Nirvana.

Il piacere controverso che l'invidia è in grado di suscitare sa celarsi tanto bene all'interno di convinzioni socialmente diffuse che può facilmente fare a meno di confessarsi a se stesso. L'invidia infatti, pur essendo un sentimento vergognoso e incoffessabile quando si realizza in una dimensione intima e privata, immaginaria e duale, si manifesta abitualmente secondo modalità per lo più irriconoscibili quando è condiviso e socializzato: essa può essere annunciata da un sorriso falsamente cortese, da congratulazioni ed elogi, da gesti pubblicamente apprezzabili e dal «venticello» della calunnia, specialmente quando questa fa leva su opinioni prevalenti, così da non destare sospetti di parzialità e tacito risentimento.

Quando le comari del paesino di cui parla Fabrizio De André in Bocca di Rosa insorgono contro di lei, non potendo più dare cattivo esempio riescono a trovare una soddisfazione in qualche modo consolatoria attraverso un condiviso risentimento che si spaccia per indignazione morale; e ogni volta che un gruppo di persone si riunisce per «sparlare» di qualche assente che potrebbe aver conseguito ai loro occhi un qualche successo o vantaggio non del tutto giustificato sono molto spesso animati da un'invidia condivisa, che si maschera però dietro buoni propositi e buoni consigli.

L'aneddoto delle lettere in cui Leibniz e Huygens si rammaricavano delle condizioni mentali di Newton -- quello scambio epistolare menzionato da Russell che abbiamo riferito nel secondo capitolo -- si inserirebbe, qualora la lettura psicologica fornita da Russell non fosse eccessivamente maliziosa, in questo contesto, e potrebbe costituire uno spunto ulteriore per non ritenere del tutto convincente la tesi che l'invidia costituisca uno stato d'animo incapace di produrre un suo peculiare tipo di soddisfazione, e quindi condannato al silenzio e alla vergogna. Anzi, nelle sue forme più vincenti e pericolose può prosperare facilmente all'interno di un discorso diffuso nel proprio gruppo di appartenenza, specialmente se questo è culturalmente egemone nel contesto più ampio della società. In quella contemporanea, i media propongono incessantemente modelli che da un lato suscitano più invidia che ammirazione, e dall'altro forniscono i riferimenti più idonei per imbastire discorsi carichi d'invidia malcelata nei riguardi di tutti coloro che a tali modelli dominanti sembrano potersi per qualche motivo sottrarre. Questi individui, anzi, suscitano forse più invidia di qualsiasi altro, perché sono difficilmente inquadrabili dentro quegli schemi valoriali ai quali il sentimento in questione deve in ogni caso fare riferimento per potersi giustificare e nascondere, per potersi riprodurre in modo tale da poter evitare la nemesi della colpa e della vergogna.

Il «discorso invidioso» può infatti muoversi e diffondersi senza destare in chi lo prova senso di colpa o vergogna e in chi ne è testimone sospetti circa la sua fattiva presenza, nutrendosi piuttosto dell'indiscrezione e di una chiacchiera implicitamente risentita, nell'humus fertile della complicità e del consenso. Il conformismo che riesce a renderlo irriconoscibile a se stesso costituisce anche -- come rileva Shoeck -- un modo per prevenirla, ma ciò al prezzo di rendersi disponibile a sostenere e assecondare quella «gioia maligna», quel piacere di fronte al disagio che può provare qualsiasi novizio all'interno di un gruppo, o una minoranza con convinzioni dissonanti rispetto a quelle della massa dei cittadini, e che può trasformare qualsiasi membro di una comunità, o di una maggioranza vincente, in un cane da guardia o in un aguzzino.

Il tipo di piacere che l'invidia sa procurare è sempre venato da un certo dis-piacere, da qualche recriminazione più o meno consapevole, un dis-piacere che è in qualche modo condiviso anche da chi è portato a sentirsi invidiato: anche questi deve infatti prendere parte al teatro dell'invidia e al suo «discorso» nella misura in cui riconosce negli stessi elementi di chi invidia delle buone ragioni per l'insorgenza di questo stato d'animo. Se esso ha origini tanto antiche e se -- in forme diverse e nell'ambito di eterogenei contesti culturali e sociali -- si mostra storicamente tanto persistente e tenace, ciò dipende dunque, probabilmente, dalla peculiare forma di gratificazione sociale che riesce a corroborarlo psicologicamente e dall'effetto compensatorio che, nonostante il suo status di sentimento vergognoso e incoffessabile, riesce comunque a conseguire.

I casi in cui l'invidia si manifesta nell'intimità individuale e non viene condivisa sono in realtà relativamente pochi rispetto a quelli in cui tale sentimento viene vissuto nella complicità della chiacchiera e della calunnia, anche quando, e specialmente quando, non si è consapevoli della malignità sottile che veicola e che trova conforto e soddisfazione in una dimensione intersoggettiva. Sono sufficienti due sole persone per far uscire l'invidia dalla sua dimensione incoffessabile e vergognosa e consentirle di accedere ad una dimensione intersoggettivamente idonea a scongiurarne o mitigarne gli effetti negativi, trasformandola così in uno stato d'animo gratificante e rassicurante. L'invidia sembra in questi casi perdere addirittura i suoi connotati essenziali, tanto da poter apparire come una normale presa d'atto delle incongruenze e lacune della personalità invidiata.

Alla fine, le persone che risultano più profondamente invidiate sono proprio quelle meno inclini a provare invidia, persone che, con la loro stessa presenza e testimonianza, costituiscono un'alternativa e quindi, implicitamente, anche una denuncia pubblica di tale sentimento. Esse, dimostrandosi restie a prendere parte al coro di coloro che vi indulgono volentieri e quasi con naturalezza, dimostrano di sapersi sottrarre ad una logica che è invece socialmente riconosciuta dai più come ineluttabile, e corrono l'accresciuto rischio di divenire per questo oggetto di un'invidia strisciante e ostinata, sebbene celata dietro la tela di una complicità intraprendente e socialmente tranquillizzante. Ponendo in questione la necessità di prendere parte a un discorso diffusamente quanto implicitamente risentito, la persone meno inclini all'invidia divengono così testimoni scomode di una possibilità alternativa a quei moventi poco nobili che alimentano il «venticello» della calunnia, che del vento dell'invidia costituisce l'effetto più prossimo e rassicurante per la personalità invidiosa.

Uno spunto conclusivo

Un esempio letterario di quella «invidia esistenziale» cui fa riferimento Scheler può essere reperito in Billy Budd. A riguardo di questo breve e ultimo romanzo di Melville -- che insieme ad uno di Eugene Sue e ad un altro dello scrittore russo Karlovich Olesha costituisce uno dei pochi testi letterari in cui il tema dell'invidia occupa una posizione centrale -- Schoeck osserva come le parole che lo scrittore americano dedica all'analisi dell'invidia potrebbero essere state scritte da Nietzsche o da Scheler. Melville osserva infatti, attraverso la sua voce narrante, che chi nutre invidia è incapace di ammetterlo: molti imputati, «nella speranza di vedersi infliggere una condanna più mite» si sono dichiarati colpevoli di turpi misfatti, «ma non si è mai visto qualcuno ammettere in tutta serietà di essere invidioso». Questa circostanza dipende dal fatto che «c'è nell'invidia qualcosa che chiunque sente più vergognoso del più orribile delitto. E non soltanto tutti la negano, ma i migliori si mostrano alquanto increduli se la vedono seriamente attribuita a persone intelligenti. Ma poiché l'invidia abita nel cuore e non nel cervello, non c'è elevatezza d'intelligenza che possa a priori escluderla».

Quella di Claggart non era, per il narratore di questo breve romanzo, «una volgare forma di questa passione; né, essendo essa diretta contro Billy Budd, aveva a che vedere con quella specie di inquieta gelosia che sconvolgeva il viso di Saul mentre, turbato, fissava lo sguardo sulla bellezza dell'adolescente David» . Tutte le qualità di Billy «provenivano da una natura che, come Claggart sentiva quasi per forza magnetica, non conosceva malizia e non aveva mai assaporato il morso rivoltante di questo serpente». Il suo odio per Billy era invece originato dalla sua personalità complessiva, da alcune sue qualità essenziali, che mettevano in discussione i presupposti stessi su cui si fondava l'esistenza stessa del maestro d'armi.

Le persone più soggette a questo tipo d'invidia sono probabilmente quelle che con la loro stessa esistenza forniscono una testimonianza scomoda, mettono cioè in discussione stili di vita, convinzioni difensive e conformiste, comportamenti volti a tutelare e affermare il proprio ruolo nella società alla luce dei valori in essa dominanti e vincenti. Tra tutti i tipi d'invidia, l' «invidia esistenziale» si rivela dunque la più irriducibile e fatale, la meno riconoscibile e controllabile, quella che più di ogni altra è in grado di influenzare in maniera decisiva tutta la personalità. L'essere in grado di scorgerne i germi e gli spunti iniziali nel cuore e nella mente costituisce quindi un requisito essenziale per non divenirne prede inconsapevoli. Se è già difficile riconoscerla quando si affaccia sulle soglie dell'anima insinuandovi quel desiderio di vendetta e quel diffuso risentimento che ne costituiscono due effetti e connotazioni fondamentali, è ancora più difficile scorgerla quando essa si cela dietro il senso comune, nella chiacchiera quotidiana e nella calunnia mascherata da una complicità sociale che la può far sembrare del tutto legittima e obiettiva. Se essa può essere vista non solo come un «peccato», o come un «vizio senza piacere», o una «passione triste», è perché essa è comunque in grado di produrre una sorta di «piacere» attraverso una gratifica sociale; tuttavia, un simile piacere è «triste» nella sua essenza, perché non è nient'altro, come Spinoza ha messo bene in evidenza, che odio trasfigurato, un odio che è particolarmente abile a trovare pretesti per auspicare il dolore nelle persone la cui esistenza può mettere in discussione i valori cui è improntata la vita della personalità invidiosa.

Esso è un piacere che non è mai in condizione di trasformarsi in gioia, e ciò nonostante le espressioni che lasciano intravedere la soddisfazione, quasi violenta pur essendo trattenuta, che talvolta provano le persone in preda all'invidia. Se si tratta di una «passione triste», quindi, non è tanto perché ci sia necessariamente tristezza in tali persone, ma perché il piacere che possono provare, pur potendo essere condiviso, nella misura in cui si rallegrano del dolore o dell'insuccesso di altri non può accedere a quella dimensione universale e partecipativa che della gioia è propria. Là dove una nostra soddisfazione porti con sé anche solo un'ombra di dolore desiderato per qualcuno o inflitto a un altro essere umano permane infatti una contraddizione di fondo che ne impedisce la trasformazione in un sentimento che sia apportatore di autentica e duratura felicità.

Tra i segnali che dovrebbero metterci in guardia e che potrebbero fornire qualche avvisaglia della sua presenza, c'è sicuramente la tendenza a «sbirciare fuori di sé». A questo proposito, Martin Buber ci ricorda le parole che Rabbi Mendel di Kozk, il grande discepolo di Rabbi Bunam, rivolse una volta alla sua comunità riunita. Tra queste, al primo posto, risuonava l'ammonimento a ««non sbirciare fuori di sé»», il che significa che ciascuno dovrebbe ««custodire e santificare la propria anima nel modo e nel luogo a lui propri, senza invidiare il modo e il luogo degli altri»».

L'assenza di luce interiore che caratterizza il «piacere senza gioia» dell'invidia, specialmente quando esso consegue qualche gratificazione sociale «sbirciando fuori di sé» insieme ad altri, ne fanno sicuramente un riferimento negativo per uno sviluppo armonico e felice della personalità umana, tanto che sarebbe forse giusto provare un sentimento di vera e propria gratitudine verso tutti coloro che sappiano meglio metterci in guardia dalle sue insidie. La gratitudine è infatti un sentimento che meglio di altri costituisce un segno che si è riusciti, o si sta riuscendo, a superare l'invidia e la dimensione di «rivalità mimetica» che la alimenta. Parole di gratitudine furono in questo senso rivolte da Herman Hesse a Martin Buber per aver scritto Il cammino dell'uomo, che lo scrittore tedesco considerava un dono «prezioso e inesauribile».

Tra coloro a cui dovremmo gratitudine, rispetto al nostro tema, vorremmo qui aggiungere Pavel Florenskij, che nel suo testamento spirituale offre un quadro essenziale delle ragioni per cui l'invidia costituisce una delle fonti più pericolose di risentimento e odio diffuso, impedendoci così di sviluppare una vita spirituale che si alimenti di relazioni umane sincere e autenticamente vissute. Il Dio di Buber, o quello di Florenskij, o quello personale in cui ciascuno può o ama credere, indipendentemente dal ruolo più o meno decisivo che possa svolgere nella sua esistenza, non rappresenta in alcun modo un vincolo o una condizione preliminare per apprezzare le parole che il filosofo e teologo russo rivolge ai suoi figli, perché siamo convinti che queste possano risultare altrettanto illuminanti anche in una prospettiva laica, o atea, per il loro fervore e la loro umiltà, dato che entrambi questi modi di sentire costituiscono segnali antitetici rispetto a quelli che accompagnano di solito il sentimento dell'invidia, nonché suoi antidoti efficaci e duraturi. Per questo, vogliamo qui riportare per esteso il passo in cui Florenskij esorta i figli a non cedere alla tentazione di «provare invidia», lasciando alle sue parole lo spazio conclusivo di questo nostro breve e lacunoso riesame della discussione sorta intorno a questo «peccato capitale», o a questo «piacere senza gioia»:

Miei cari, il peccato che mi sarebbe particolarmente penoso vedere in voi è l'invidia. Non abbiate invidia, miei amati, di nessuno. Non siate invidiosi, perché l'invidia rende lo spirito piccolo e volgare. Se proprio desiderate possedere qualcosa, datevi da fare chiedendo a Dio che vi dia ciò che desiderate. Ma non invidiate nessuno. La meschinità dell'animo, la grettezza, i pettegolezzi insolenti, la cattiveria, gli intrighi: tutto ciò proviene dall'invidia. Ma voi non siate invidiosi, datemi questa consolazione, ed io sarò con voi e per quanto potrò, pregherò il signore che vi aiuti.
E ancora: non giudicate, non condannate chi è più anziano di voi, non sparlate e cercate di coprire il peccato e di non evidenziarlo. Dite a voi stessi: «chi sono io per condannare gli altri, conosco forse le loro motivazioni interiori per poter giudicare? ». Il giudizio nasce soprattutto dall'invidia ed è una cosa abominevole. Abbiate per ognuno il rispetto dovuto, non adulate nessuno e non umiliatevi, ma non giudicate le questioni che non vi sono state affidate da Dio. Occupatevi dell'opera vostra, cercate di compierla nel migliore dei modi, e tutto ciò che fate, fatelo non per gli altri, ma per voi stessi, per la vostra anima, cercando di trarre da tutto vantaggio, insegnamento, alimento per l'anima, perché neanche un solo istante della vostra vita vi scorra accanto senza senso o contenuto.

sabato 16 novembre 2019

Invidia e provocazione

L’invidioso reagisce a una provocazione: ma reale o immaginaria? E' veramente un luogo comune? Ci è sempre stato detto e insegnato che l’invidia è una brutta cosa, un sentimento del quale ci si dovrebbe vergognare 
di Francesco Lamendola

Ci è sempre stato detto e insegnato che l’invidia è una brutta cosa, un sentimento del quale ci si dovrebbe vergognare; e poco importa se, sovente, il comportamento delle persone smentisce questo luogo comune, dato che sono invidiose anche molte di quelle che dicono tali cose e non sempre se ne mostrano afflitte, come sarebbe lecito aspettarsi.
Ora, per poter esprimere una valutazione di carattere complessivo sul fenomeno dell’invidia, bisogna innanzitutto capire come esso si generi: solo allora potremo farcene un’idea adeguata e, di conseguenza, assumere una posizione di principio nei confronti di essa.
La prima cosa da tener presente è che l’invidia, come tutti i sentimenti umani, esprime una relazione o, quanto meno, un tentativo di relazione, magari abortito, magari represso, magari frustrato; in altre parole, non è qualcosa che riguarda un solo soggetto, ma due: colui che invidia e colui che è invidiato.
Questo è un fatto notevole, che sovente passa un po’ inosservato. L’invidioso non fa tutto da solo; o, se anche fa tutto da solo, vive nondimeno un sentimento che si origina nella relazione con un altro essere umano: “relazione” nel senso più ampio del termine, perché i due possono anche non conoscersi affatto, possono anche esse due perfetti estranei, i quali, però, a un certo punto, si trovano a passare, per così dire, per la stessa strada.
Si può provare invidia per uno sconosciuto che ci passa accanto e che sfoggia un abito più bello, un fisico più attraente, un qualsiasi attributo di desiderabilità che fa scattare in noi, appunto, la reazione dell’invidia; addirittura, si può essere invidiosi di qualcuno che non si è mai visto, ma di cui si è sentito parlare in termini un po’ troppo elogiativi – troppo, beninteso, per i nostri gusti, cioè nel senso che quelle lodi ci sembrano eccessive e immeritate e ci par quasi che tolgano a noi quanto ci sarebbe, invece, dovuto.
Dunque, ecco il punto: l’invidioso non si sente nei panni di un aggressore, ma di un aggredito; non percepisce se stesso come colui che attacca, e sia pure col pensiero, ma come colui che si difende, anzi, che è costretto a difendersi, giustamente e legittimamente; per essere precisi, che si difende da una vera e propria provocazione. L’altro lo provoca, ostentando i propri meriti e il proprio successo, e lui reagisce, per legittima e sacrosanta difesa, per istinto di conservazione.
È noto, ad esempio, che in tutte le classi scolastiche c’è uno studente che primeggia, che eccelle, e che, per questo, è oggetto della stima e della simpatia degli insegnanti; e che costui è malvisto dai compagni; è, per definizione, l’antipatico del quale si pensa tutto il male possibile, è il secchione, il lecchino, l’insulso che non sa vivere, ma che, nel mondo artificiale della scuola, supera gli altri a forza di studio, cioè assumendo un contegno profondamente innaturale, perché si dà per scontato che sia nella natura dello studente “normale” quella di non amare i libri e, perciò, di puntare al massimo risultato con il minimo sforzo possibile.
Ebbene: anche se i compagni del “secchione” non lo ammetterebbero mai, il loro modo di agire nei suoi confronti è vile; essi sovente si abbandonano a comportamenti malevoli e persecutorî nei suoi confronti, si fanno forti del numero, del loro essere “normali”, cioè pigri e svogliati nello studio; lo calunniano e lo disprezzano, lo denigrando e lo svalutano, cercano di ridicolizzarlo, lo escludono, sino a farne un autentico “paria” (salvo, poi, aspettarsi che egli passi loro la versione di latino durante il compito in classe). Si sentono, infatti, la parte lesa, la parte offesa, e si calano nel ruolo di chi è costretto ad impugnare le armi per una giusta causa, a combattere una guerra difensiva e, perciò, assolutamente legittima. Quanto è fondata la loro pretesa? Difficile dirlo. Può darsi che il “secchione”, effettivamente, sia un po’ lecchino, o che si compiaccia di essere nelle grazie dei professori, complimentato e coccolato, nonché continuamente portato ad esempio di eccellenza; può darsi, peggio ancora, che sia un po’ presuntuoso, che ostenti la sua superiorità su di loro, che lasci trasparire il suo senso di sufficienza.
Però le cose potrebbero anche stare altrimenti. Può darsi che si tratti di un ragazzo (o di una ragazza) modesto, riservato, precocemente maturo e, perciò, annoiato dai comportamenti infantili dei suoi compagni, ma che si sforzi di non lasciar trasparire il suo fastidio; che cerchi, anzi, di farsi piccolo quando prende un bel voto, di mettere lo schermo alle sue eccellenti prestazioni scolastiche; può darsi che la responsabilità maggiore della sua sovraesposizione non ricada su di lui, ma sui professori, che stupidamente lo lodano in continuazione davanti a tutti e, così facendo, mettono in ombra e fanno sentire frustrata e inadeguata l’intera classe.
E qui sta il grande mistero del’invidia. Perché l’invidioso, che si sente un “giusto” provocato e, magari, perseguitato dal successo e dalla fortuna dell’invidiato, potrebbe avere alcune ragioni per vedere le cose in tal modo; ma potrebbe anche averne pochissime o, forse, nessuna. L’invidia è cieca: chi può dire se c’è stata realmente una provocazione? L’invidioso percepisce la presenza dell’altro, dell’invidiato, come una provocazione: il solo fatto che egli esista, gli riesce come un oltraggio insopportabile, come una specie di aggressione permanente. Ma se tale aggressione ci sia stata davvero, è difficile dirlo: a volte sì, a volte no; ma a che serve stabilire dei parametri oggettivi, quando la realtà dell’invidioso è, sempre e comunque, non quella agita dall’altro, ma quella da lui percepita in maniera soggettiva e, forse, paranoica?
Certo: l’individuo “normale”, nel senso di psicologicamente equilibrato, che prova sentimenti “sani”, è in grado di distinguere e separare la realtà oggettiva da quella puramente soggettiva, almeno fino ad un certo punto; è in grado di vedere, per usare un linguaggio semplice, ma chiaro, la differenza tra un fatto e una allucinazione. Ma il punto è che l’invidia è un sentimento che stravolge la capacitò di giudizio, è una passione primordiale; e, di conseguenza, l‘invidioso è appunto simile ad un allucinato: difficilmente riesce a cogliere la differenza tra ciò che esiste realmente e ciò che è frutto di una sua percezione distorta e aberrante.
Pertanto, l’invidiato può essere realmente una persona che ostenta il proprio valore e i propri meriti, che siano essi veri o presunti; ma, nel momento in cui essi gli vengono riconosciuti, a torto o a ragione, da un certo pubblico, ecco che scatta il pungiglione dell’invidia nell’anima di quanti si sentono offesi e sminuiti da quel riconoscimento. Non si invidia colui che, pur vantandosi e ostentando, non ottiene alcun riconoscimento: si prova invidia per colui che è oggetto dell’altrui ammirazione. E, anche in quel caso, bisogna distinguere fra l’invidia “normale” e l’invidia maligna. L’invidia, infatti, è di almeno due specie. Esiste una invidia sana, che è propria di qualsiasi essere umano: il principiante che assiste alle prestazioni sportive di un campione, di un alpinista, di un nuotatore, di un velista, prova invidia nei suoi confronti, perché vorrebbe essere come lui, vorrebbe essere altrettanto bravo. Ma, fin qui, non si tratta di invidia maligna, perché essa è temperata dall’ammirazione e dal leale riconoscimento che quella persona è realmente più brava e che merita davvero le lodi, le acclamazioni, le medaglie. Inoltre, il principiante spera di poter eguagliare, un giorno, quel livello di bravura; dunque, la sua invidia è mitigata anche dal fatto che lui stesso si aspetta di diventare, un giorno, oggetto dell’altrui ammirazione.
L’invidia per la ricchezza può rispondere alle stesse dinamiche, perché la ricchezza è una possibilità: riguarda l’avere e non l’essere, dunque la si può conquistare, in linea teorica, anche partendo da zero, purché si sia capaci di lavoro, sacrificio ed impegno. Certo, nella ricchezza vi è anche un elemento che non dipende dal merito personale, cioè la fortuna: una eredità inattesa, una vincita alla lotteria o al tavolo da gioco, ed ecco che il denaro arriva senza un particolare merito: questo tipo di ricchezza è spesso oggetto di invidia maligna, anche perché giunge improvvisa. E i poveri, si sa, tollerano più facilmente colui che è ricco da sempre, che non colui che era povero come loro, e si è arricchito sotto i loro occhi (anche se col proprio lavoro e con la propria intelligenza): è il caso magistralmente illustrato da Giovanni Verga nel «Mastro-Don Gesualdo».
Ma che dire della bellezza? La bellezza non è paragonabile a un vestito che si indossa; è molto difficile conquistarla, se non la si possiede naturalmente; e, anche se la si può conquistare mediante pratiche estetiche e perfino chirurgiche, resta l’invidia nei confronti di chi, senza dover fare alcuno sforzo, senza bisogno di mettersi a dieta, senza dover fare ore e ore di palestra, di sauna e di sedute dall’estetista, sfolgora di bellezza e mette in ombra tutti quanti col suo solo apparire, magari appena sceso dal letto, magari vestito col primo abito che capita.
Terribile è il sentimento dell’invidia che le donne nutrono nei confronti delle altre donne, se vedono che queste conquistano l’altrui ammirazione per la loro bellezza, per la loro freschezza, per la loro giovinezza; ed è quasi incredibile il fatto che ci siano così tante donne che farebbero qualunque cosa pur di suscitare l’invidia delle altre, apparentemente senza rendersi conto di quanta malevolenza, di quanto rancore, di quanto odio si attirano, così facendo.
Osserva in proposito Francesco Alberoni («Gli invidiosi», Milano, Garzanti, 1991, p. 97):

«L’invidiato non si rende conto della ferita, del dolore che provoca nell’invidioso e non capisce la violenza della sua reazione aggressiva. La bella donna che attraversa altezzosa la sala con tutti gli occhi puntati addosso è contenta. Sa di ostentare, sa di essere invidiata, ma non afferra fino in fondo la malvagità, l’odio che l’accompagna. Nella sua mente immagina una serie di commenti postivi, magari strappati a forza,ma positivi. Pensa che, sia pure a malincuore, le altee donne ammettano la sua bellezza, ne siano impressionate. Sarebbe spaventata se sentisse cosa dicono veramente di lei: “Guarda quella schifosa, quel’arpia, quella svampita, quella profittatrice, quella ladra, quella puttana… »

La pratica del malocchio, tanto diffusa non solo nel mondo rurale e pre-moderno, ma anche fra i grattacieli della società tecnologica (si rimarrebbe stupiti di quante persone ricorrano, al giorno d’oggi, a fatture contro le rivali o contro individui più fortunati), nasce da qui, come dice la parola stessa: guardare male qualcuno, cioè con invidia, con rancore, con odio.

C’è una conclusione a quanto siamo andati dicendo? Se l’invidia è un sentimento sostanzialmente soggettivo, come proteggersi da essa? Come evitare di esserne l’oggetto, come evitare di esserne il soggetto? Perché si tratta di due condizioni che sono entrambe poco desiderabili, sia pure per ragioni diverse: l’invidiato è esposto alla reazione dell’invidioso; e quest’ultimo si contorce nelle spire della sua frustrazione, della sua rabbia impotente.
Eppure, la via d’uscita, almeno per l’invidioso, non è difficile da vedere: essa risiede nella sfera dell’essere, non in quella dell’avere. Chi si sforza di essere, di essere persona, e di evolvere spiritualmente, non prova invidia per nessuno, se non, casomai, quella forma di sana invidia, non maligna, ma benefica perché stimolante, che è propria del principiante nei confronti del maestro.
Resta aperta la piaga dell’invidiato. Accade che le persone eccellenti siano invidiate anche se non fanno niente per alimentare l’invidia altrui: perché le simpatie che attirano, l’ammirazione da cui sono circondate, sono sufficienti a far scattare il serpente dell’invidia. Non basta: anche se non sono baciate dal successo, anche se il loro valore non viene riconosciuto, esse talvolta sono invidiate ugualmente, perché POTREBBERO essere oggetto di ammirazione. L’invidioso, di solito, ha le antenne: percepisce se l’altro è migliore di lui e se ne cruccia, non solo se vede che questa superiorità viene riconosciuta dagli altri, ma anche soltanto all’idea che ciò potrebbe accadere, e sia pure un domani, e sia pure in circostanze diverse dalle attuali: per esempio, se l’attuale capoufficio se ne andrà in pensione e ne arriverà uno nuovo, libero da pregiudizi e capace di valutare le persone in maniera spassionata, senza favoritismi…

Che fare, dunque, quando si è oggetto di invidia, pur non avendo ostentato per niente le proprie doti, la bellezza, la cultura, la preparazione? Che fare se si ha la sola colpa di essere giovani, davanti ad un vecchio invidioso? Purtroppo, a questa domanda non c’è risposta: la modestia può servire, ma non sempre è sufficiente; la riservatezza potrebbe essere interpretata come superbia; perfino la timidezza, all’invidioso, potrebbe sembrare arroganza. In simili casi, non resta che seguire il consiglio del gran padre Dante: lasciare che l’invidioso si gratti la sua rogna, e passare oltre…

Del 12 Agosto 2017
Già pubblicato su Arianna Editrice

Di tutto sono felice

LA PIOGGIA

Di tutto sono felice: della città fradicia,
dei tetti, fino a ieri polverosi,
che oggi, lustri come seta lucida,
brillano in rivoli d’argento.

Felice della mia passione spenta,
guardo dalla finestra sorridendo,
mentre passi oltre veloce
per la strada scivolosa, sola.

Felice che più forte cada la pioggia,
mentre, riparata in un androne altrui,
tu rovesci l’ombrello bagnato,
sgrullandoti dalla pioggia.

Felice che tu mi abbia dimenticato
quando esci da quel portico,
senza uno sguardo alla mia finestra,
senza rivolgermi il viso.

Felice che sia tu a passare oltre,
eppure che io possa vederti,
che tanto magnifica e innocente
passi col suo ardore la primavera.

Vladislav Felicianovič Chodasevič

venerdì 15 novembre 2019

Se non ti avessi mai incontrata

La mia vita
sarebbe
forse più facile
se io
non ti avessi mai incontrata.
...Meno tristezza
ogni volta
che dobbiamo separarci
meno paura
della prossima separazione
e di quella che ancora verrà.
E anche poco
di quella nostalgia impotente
che quando non ci sei
vuole l'impossibile
e subito
fra un istante
e che poi
poiché non è possibile
resta turbata
e respira a fatica.
La vita
sarebbe forse
più facile
se io
non ti avessi incontrata.
Soltanto non sarebbe
la mia vita.

- Erich Fried


mercoledì 13 novembre 2019

Lettera a un bambino mai nato

C'era una volta una donna che sognava un pezzetto di luna. Anzi, nemmeno un pezzetto: un po' di polvere le sarebbe bastata. Non era un sogno irrealizzabile, tantomeno bizzarro. Lei conosceva gli uomini che andavano sulla Luna, andarci era una gran moda a quel tempo. Gli uomini partivano da un punto della Terra non lontano da qui, con piccole navi di ferro, agganciate sulla cima di un altissimo razzo, e ogni volta che il razzo schizzava nel cielo, tuonando, seminando fiori di fuoco come una cometa, la donna era molto felice. Gridava: "Go, go, go! Vai, vai, vai!". Poi seguiva trepidante e gelosa il viaggio degli uomini che volavano tre giorni e tre notti, nel buio.
Gli uomini che andavano sulla Luna erano uomini sciocchi. Avevano sciocchi volti di pietra e non sapevano ridere, non sapevano piangere. La Luna per loro era un'impresa scientifica e basta, una conquista della tecnologia. Durante il viaggio non dicevano mai qualcosa di bello, solo numeri e formule e informazioni noiose, se alternavano lampi di umanità era per chieder notizie su una squadra di football. Una volta sbarcati sulla Luna sapevano dire ancor meno. Al massimo pronunciavano due o tre frasi fatte. Poi piantavano una bandiera di latta, con movimenti da automa si abbandonavano a un cerimoniale di gesti scontati, e ripartivano dopo aver sporcato la Luna coi loro escrementi che così restavano a testimoniare il passaggio dell'Uomo. Gli escrementi eran chiusi dentro scatolette, le scatolette venivano lasciate lì con la bandiera, e se lo sapevi non riuscivi a guardare la Luna senza pensare: "Lassù ci sono anche i loro escrementi". Infine tornavano pieni di sassi, di polvere. Sassi di Luna, polvere di Luna. La polvere che la donna sognava. E rivedendoli lei elemosinava: "Mi dai un poco di Luna? Ne hai tanta!". Ma loro rispondevano sempre: non-si-può-è-proibito. Tutta la Luna finiva nei laboratori, sulle scrivanie dei personaggi per cui andarci era un'impresa scientifica e basta, una conquista della tecnologia. Erano uomini sciocchi, perché erano uomini privi d'anima. Eppure ce n'era uno che a me sembrava migliore. Infatti sapeva ridere e piangere. Era un omino brutto, coi denti radi e una gran paura addosso. Per nasconderla rideva buffe risate e portava buffi cappelli. Io gli ero amica per questo e perché sapeva di non meritare la Luna. Incontrandomi brontolava: "Cosa dirò lassù? io non sono un poeta, non so dire cose belle e profonde". Pochi giorni prima di andar sulla Luna venne da me, per salutarmi e chiedermi cosa dire sulla Luna. Gli risposi che doveva dire qualcosa di vero, qualcosa di onesto, ad esempio che era un omino colmo di paura perché era un omino. Ciò gli piacque e giurò: "Se torno ti porto un poco di Luna. Polvere di Luna". Partì e ritornò. Ma tornò cambiato. Se gli telefonavo per ricordargli la promessa, rispondeva evasivo. Poi, una sera, mi invitò a cena nella sua casa e io mi precipitai credendo che volesse darmi finalmente la Luna. A tavola ero inquieta, la cena non finiva mai. Quando finì, lui disse: "Ora ti faccio vedere la Luna". Non disse ora-ti-do-la-Luna. Disse ora-ti-faccio-vedere-la-Luna. Ma io non notai la differenza. Portava ancora quei buffi cappelli, rideva ancora quelle buffe risate, non sospettavo che in cielo avesse perso anche il goccio di anima che gli attribuivo.
Mi accompagnò nel suo studio, ammiccando. Aprì un armadio chiuso a chiave, giocando. Dentro l'armadio c'erano alcuni oggetti: una specie di vanga, una specie di zappa, un tubo... Tutti coperti da una polvere strana, color grigio argento. La polvere di Luna. Il mio cuore prese a battere forte. Col cuore che batteva forte allungai la mano, agguantai delicatamente la vanga. Era una vanga leggera, quasi priva di peso, e la polvere era una specie di cipria, un velo d'argento che sulla pelle restava come una seconda pelle d'argento, e non saprei dirti che cosa provai a vedere la Luna sulla mia pelle. Forse la sensazione di espandermi nel tempo e nello spazio, o di raggiungere l'irraggiungibile, l'idea stessa dell'infinito. Cose che penso ora, però. In quel momento non potevo pensare. Anche ora che cerco, frugando nel ricordo della coscienza, riesco a dirti soltanto che me ne stavo lì sbalordita, tenendo in mano la vanga, e non mi accorgevo nemmeno che lui diventava impaziente: quasi temesse di vedersi rubare un tesoro di cui non era disposto a conceder nemmeno il ricordo. Quando me ne accorsi, gliela restituii e sussurrai: "Grazie. Ora dammi la polvere di Luna". Diventò subito duro: "Che polvere di Luna?". "Quella che mi hai promesso..." "L'hai appena avuta. Te l'ho lasciata toccare". Credevo che scherzasse. Impiegai minuti più lunghi di anni per rendermi conto che non scherzava, che la sua promessa s'era esaurita nell'atto di lasciarmi toccare la vanga. Proprio quel che si fa coi poveri quando gli si consente di ammirare un gioiello in vetrina o di guardar da lontano una festa cui non devono partecipare. Nella sorpresa, il dolore, non riuscivo neanche a rinfacciargli l'imbroglio, rimproverargli tanta meschinità. Mi ripetevo soltanto: se riuscissi a convincerlo che ciò è troppo malvagio. E in questa pazza speranza cominciai a supplicarlo, spiegargli che non gli chiedevo un pezzetto di Luna, gli chiedevo soltanto la polvere di Luna che mi aveva promesso, pochina, ne aveva tanta dentro l'armadio, ogni oggetto ne era coperto, bastava che mi permettesse di raccoglierne un po' sopra un foglio; su qualcosa che non fosse la mia pelle, per guardarla di nuovo negli anni a venire, era sempre stato un desiderio per me, lo sapeva, non era un capriccio. Ma, più mi umiliavo, più lui diventava duro. Mi fissava con gelidi occhi e taceva. Infine, tacendo, richiuse l'armadio e uscì dalla stanza. Dal salotto sua moglie chiedeva se volevamo un caffè.
Non risposi. Me ne rimasi ferma a guardar la mia mano coperta di Luna. Avevo la Luna in mano e non sapevo dove appoggiarla, come conservarla: al minimo contatto sarebbe sparita. Il mio cervello cercava invano una soluzione, uno stratagemma che offrisse la via di salvare il salvabile, ma trovava solo una nebbia, e dentro la nebbia una frase: "Sarebbe come toglier la cipria. Ovunque la spalmi è perduta". Ed era questo il tormento più grande, la sevizia che Tantalo non aveva mai conosciuto. Tantalo si vedeva sfuggire il frutto nell'attimo in cui stava per afferrarlo, non se lo vedeva svanire dopo averlo afferrato. Poi detti un'ultima occhiata alla mia mano d'argento, spalancata in un gesto di supplica assurda, inghiottii un desiderio di lacrime, sorrisi con amarezza. Da lontananze infinite la Luna era giunta a me, s'era posata sulla mia pelle, ed io mi accingevo a buttarla via. Per sempre. Anche volendo non avrei potuto restare così, con le dita tese, senza toccare altre cose. Prima o poi le avrei posate in un posto, capisci, e tutto sarebbe svanito come svanisce il fumo: per la beffa crudele di un imbecille crudele. Strinsi la mano con rabbia. La spalancai di nuovo. Ora sulla palma si vedeva appena un arabesco di righe sporche, contorte, e guardarle mi dava un ribrezzo. Per arrivare a questo ribrezzo avevo tanto sognato, aspettato?
Quando me ne andai, la Luna era bianca e illuminava la notte di bianco. La fissavi con occhi appannati e pensavi: appena esiste una cosa bianca, pulita, c'è sempre qualcuno che la insozza con i suoi escrementi. Poi ti chiedevi: perché? Ma perché? In albergo aprii il rubinetto dell'acqua, ci posai sotto la mano. Ne colò un liquido nero che presto scomparve in un vortice nero e sai che ti dico, bambino? Tu sei come la mia Luna, la mia polvere di Luna. Gli spasmi sono raddoppiati, non posso più guidare. Se trovassi un motel, potessi fermarmi, riposarmi. Col cervello più lucido, forse, scoprirei una soluzione per salvare il salvabile: non buttare via la mia Luna. Non voglio perder di nuovo la Luna, vederla sparire in fondo a un lavabo. Ma è inutile. Con la stessa certezza che mi paralizzava la notte in cui seppi che esistevi, ora so che stai cessando di esistere.

- O. Fallaci, "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli BUR, pp. 64-68.

lunedì 11 novembre 2019

Avere o essere?, #3

Affermare: "Ho molto amore per te" è privo di significato. L'amore non è una cosa che si può avere, bensì un processo, un'attività interiore di cui si è il soggetto. Posso amare, posso essere innamorato, ma in amore non ho un bel nulla. In effetti, meno ho e più sono in grado di amare.

- E. Fromm, "Avere o essere?", pag. 35