mercoledì 13 novembre 2019

Lettera a un bambino mai nato

C'era una volta una donna che sognava un pezzetto di luna. Anzi, nemmeno un pezzetto: un po' di polvere le sarebbe bastata. Non era un sogno irrealizzabile, tantomeno bizzarro. Lei conosceva gli uomini che andavano sulla Luna, andarci era una gran moda a quel tempo. Gli uomini partivano da un punto della Terra non lontano da qui, con piccole navi di ferro, agganciate sulla cima di un altissimo razzo, e ogni volta che il razzo schizzava nel cielo, tuonando, seminando fiori di fuoco come una cometa, la donna era molto felice. Gridava: "Go, go, go! Vai, vai, vai!". Poi seguiva trepidante e gelosa il viaggio degli uomini che volavano tre giorni e tre notti, nel buio.
Gli uomini che andavano sulla Luna erano uomini sciocchi. Avevano sciocchi volti di pietra e non sapevano ridere, non sapevano piangere. La Luna per loro era un'impresa scientifica e basta, una conquista della tecnologia. Durante il viaggio non dicevano mai qualcosa di bello, solo numeri e formule e informazioni noiose, se alternavano lampi di umanità era per chieder notizie su una squadra di football. Una volta sbarcati sulla Luna sapevano dire ancor meno. Al massimo pronunciavano due o tre frasi fatte. Poi piantavano una bandiera di latta, con movimenti da automa si abbandonavano a un cerimoniale di gesti scontati, e ripartivano dopo aver sporcato la Luna coi loro escrementi che così restavano a testimoniare il passaggio dell'Uomo. Gli escrementi eran chiusi dentro scatolette, le scatolette venivano lasciate lì con la bandiera, e se lo sapevi non riuscivi a guardare la Luna senza pensare: "Lassù ci sono anche i loro escrementi". Infine tornavano pieni di sassi, di polvere. Sassi di Luna, polvere di Luna. La polvere che la donna sognava. E rivedendoli lei elemosinava: "Mi dai un poco di Luna? Ne hai tanta!". Ma loro rispondevano sempre: non-si-può-è-proibito. Tutta la Luna finiva nei laboratori, sulle scrivanie dei personaggi per cui andarci era un'impresa scientifica e basta, una conquista della tecnologia. Erano uomini sciocchi, perché erano uomini privi d'anima. Eppure ce n'era uno che a me sembrava migliore. Infatti sapeva ridere e piangere. Era un omino brutto, coi denti radi e una gran paura addosso. Per nasconderla rideva buffe risate e portava buffi cappelli. Io gli ero amica per questo e perché sapeva di non meritare la Luna. Incontrandomi brontolava: "Cosa dirò lassù? io non sono un poeta, non so dire cose belle e profonde". Pochi giorni prima di andar sulla Luna venne da me, per salutarmi e chiedermi cosa dire sulla Luna. Gli risposi che doveva dire qualcosa di vero, qualcosa di onesto, ad esempio che era un omino colmo di paura perché era un omino. Ciò gli piacque e giurò: "Se torno ti porto un poco di Luna. Polvere di Luna". Partì e ritornò. Ma tornò cambiato. Se gli telefonavo per ricordargli la promessa, rispondeva evasivo. Poi, una sera, mi invitò a cena nella sua casa e io mi precipitai credendo che volesse darmi finalmente la Luna. A tavola ero inquieta, la cena non finiva mai. Quando finì, lui disse: "Ora ti faccio vedere la Luna". Non disse ora-ti-do-la-Luna. Disse ora-ti-faccio-vedere-la-Luna. Ma io non notai la differenza. Portava ancora quei buffi cappelli, rideva ancora quelle buffe risate, non sospettavo che in cielo avesse perso anche il goccio di anima che gli attribuivo.
Mi accompagnò nel suo studio, ammiccando. Aprì un armadio chiuso a chiave, giocando. Dentro l'armadio c'erano alcuni oggetti: una specie di vanga, una specie di zappa, un tubo... Tutti coperti da una polvere strana, color grigio argento. La polvere di Luna. Il mio cuore prese a battere forte. Col cuore che batteva forte allungai la mano, agguantai delicatamente la vanga. Era una vanga leggera, quasi priva di peso, e la polvere era una specie di cipria, un velo d'argento che sulla pelle restava come una seconda pelle d'argento, e non saprei dirti che cosa provai a vedere la Luna sulla mia pelle. Forse la sensazione di espandermi nel tempo e nello spazio, o di raggiungere l'irraggiungibile, l'idea stessa dell'infinito. Cose che penso ora, però. In quel momento non potevo pensare. Anche ora che cerco, frugando nel ricordo della coscienza, riesco a dirti soltanto che me ne stavo lì sbalordita, tenendo in mano la vanga, e non mi accorgevo nemmeno che lui diventava impaziente: quasi temesse di vedersi rubare un tesoro di cui non era disposto a conceder nemmeno il ricordo. Quando me ne accorsi, gliela restituii e sussurrai: "Grazie. Ora dammi la polvere di Luna". Diventò subito duro: "Che polvere di Luna?". "Quella che mi hai promesso..." "L'hai appena avuta. Te l'ho lasciata toccare". Credevo che scherzasse. Impiegai minuti più lunghi di anni per rendermi conto che non scherzava, che la sua promessa s'era esaurita nell'atto di lasciarmi toccare la vanga. Proprio quel che si fa coi poveri quando gli si consente di ammirare un gioiello in vetrina o di guardar da lontano una festa cui non devono partecipare. Nella sorpresa, il dolore, non riuscivo neanche a rinfacciargli l'imbroglio, rimproverargli tanta meschinità. Mi ripetevo soltanto: se riuscissi a convincerlo che ciò è troppo malvagio. E in questa pazza speranza cominciai a supplicarlo, spiegargli che non gli chiedevo un pezzetto di Luna, gli chiedevo soltanto la polvere di Luna che mi aveva promesso, pochina, ne aveva tanta dentro l'armadio, ogni oggetto ne era coperto, bastava che mi permettesse di raccoglierne un po' sopra un foglio; su qualcosa che non fosse la mia pelle, per guardarla di nuovo negli anni a venire, era sempre stato un desiderio per me, lo sapeva, non era un capriccio. Ma, più mi umiliavo, più lui diventava duro. Mi fissava con gelidi occhi e taceva. Infine, tacendo, richiuse l'armadio e uscì dalla stanza. Dal salotto sua moglie chiedeva se volevamo un caffè.
Non risposi. Me ne rimasi ferma a guardar la mia mano coperta di Luna. Avevo la Luna in mano e non sapevo dove appoggiarla, come conservarla: al minimo contatto sarebbe sparita. Il mio cervello cercava invano una soluzione, uno stratagemma che offrisse la via di salvare il salvabile, ma trovava solo una nebbia, e dentro la nebbia una frase: "Sarebbe come toglier la cipria. Ovunque la spalmi è perduta". Ed era questo il tormento più grande, la sevizia che Tantalo non aveva mai conosciuto. Tantalo si vedeva sfuggire il frutto nell'attimo in cui stava per afferrarlo, non se lo vedeva svanire dopo averlo afferrato. Poi detti un'ultima occhiata alla mia mano d'argento, spalancata in un gesto di supplica assurda, inghiottii un desiderio di lacrime, sorrisi con amarezza. Da lontananze infinite la Luna era giunta a me, s'era posata sulla mia pelle, ed io mi accingevo a buttarla via. Per sempre. Anche volendo non avrei potuto restare così, con le dita tese, senza toccare altre cose. Prima o poi le avrei posate in un posto, capisci, e tutto sarebbe svanito come svanisce il fumo: per la beffa crudele di un imbecille crudele. Strinsi la mano con rabbia. La spalancai di nuovo. Ora sulla palma si vedeva appena un arabesco di righe sporche, contorte, e guardarle mi dava un ribrezzo. Per arrivare a questo ribrezzo avevo tanto sognato, aspettato?
Quando me ne andai, la Luna era bianca e illuminava la notte di bianco. La fissavi con occhi appannati e pensavi: appena esiste una cosa bianca, pulita, c'è sempre qualcuno che la insozza con i suoi escrementi. Poi ti chiedevi: perché? Ma perché? In albergo aprii il rubinetto dell'acqua, ci posai sotto la mano. Ne colò un liquido nero che presto scomparve in un vortice nero e sai che ti dico, bambino? Tu sei come la mia Luna, la mia polvere di Luna. Gli spasmi sono raddoppiati, non posso più guidare. Se trovassi un motel, potessi fermarmi, riposarmi. Col cervello più lucido, forse, scoprirei una soluzione per salvare il salvabile: non buttare via la mia Luna. Non voglio perder di nuovo la Luna, vederla sparire in fondo a un lavabo. Ma è inutile. Con la stessa certezza che mi paralizzava la notte in cui seppi che esistevi, ora so che stai cessando di esistere.

- O. Fallaci, "Lettera a un bambino mai nato", Rizzoli BUR, pp. 64-68.

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