giovedì 23 aprile 2020

Il teorema di Almodòvar

"Se mi guardi abbastanza a lungo, tutti i giorni, credo che il mio volto si trasformerà. Penso che sia possibile. E' come una chirurgia sottile. Nulla è fisso, nell'universo ogni cosa è in movimento, le forme sono passaggi transitori. Quando distogli lo sguardo, cambiano apparenza. In realtà, dovrebbe essere impossibile riconoscere chiunque. Osservo molto i volti degli altri e ho notato che ogni notte avviene un misterioso processo che sposta tutto in modo impercettibile. Dipende dall'umore, dalle emozioni, dai sogni, ma nessuno se ne accorge davvero. E' questa fissità, che tutti pensano di avere, a tessere pian piano l'illusione generale. E' ciò che consuma il mondo. La violenza primigenia. Ognuno si fa carico della propria fissità e ribadisce quella degli altri. insomma, ci si aspetta che uno sia sempre uguale a se stesso. Tu hai rotto l'incantesimo consapevolmente, io per caso"
[...]
"Di notte, a Barcellona, passeggiavo dalle parti del porto e percorrevo la spiaggia il più vicino possibile alle onde, facendo attenzione a mantenere un po' di distanza dalle coppie distese sulla sabbia. Ne ho spaventata qualcuna".
"Ti mostrerò un angolino senza illuminazione. Dove si vedono bene la luna e le stelle. Quando sono triste vado là con l'immaginazione e piango per ore, a volte nell'acqua, figurati! Non sono mai riuscita ad alzare il livello del mare di un solo millimetro. Non è un vero dolore!"
"Basta una sola lacrima per alzare il livello del mare. Forse non è misurabile, ma è reale".
"Con tutte le lacrime del mondo dovrebbero esserci solo isole, il pianeta dovrebbe essere sommerso per nove decimi!"
"Infatti ci troviamo su isole, tu e io lo sappiamo. Se nessuno ferma questo diluvio, finiremo per annegare".
"Dovremmo costruire una barca"
"E per far cosa, se non ci sono più porti?".

- Antoni Casas Ros, "Il teorema di Almòdovar", pagg. 21-22

lunedì 6 aprile 2020

La banalità del male (4)

Poco tempo dopo, nell'autunno dello stesso anno, il suo superiore Muller lo mandò a ispezionare un centro di sterminio in quelle regioni occidentali della Polonia che erano state incorporate nel Reich formando il cosiddetto Warthegau. Il campo si trovava a Kulm (in polacco Chelmno), e qui, nel 1944, furono poi uccisi oltre trecentomila ebrei provenienti da ogni parte d'Europa, precedentemente concentrati nel ghetto di Lòdz. Qui si lavorava già a pieno ritmo, ma il metodo era diverso: invece di camere si usavano camion a gas. Ecco che cosa vide Eichmann: gli ebrei erano raggruppati in una grande stanza; ricevettero l'ordine di spogliarsi; poi arrivò un camion che si fermò proprio dinanzi all'ingresso della stanza e gli ebrei nudi vi furono fatti entrare. Gli sportelli si richiusero e il camion partì. "Non so dire [quanti fossero], cercavo di non guardare. Non potevo; non potevo; ne avevo abbastanza. Le grida e... Ero troppo sconvolto e così via, come dissi più tardi a Muller quando gli riferii; lui non trasse molto profitto dal mio raporto. Poi seguii il camion, e allora vidi la cosa più orribile che avessi mai visto in vita mia. Il camion si fermò davanti a una fossa, gli sportelli si aprirono e i corpi furono gettati giù; sembravano ancora vivi, tanto le membra erano ancora flessibili. Furono scaraventati nella fossa, e mi sembra ancora di vedere un civile che estraeva i denti con le tenaglie. Poi e ne andai - saltai in macchina e non aprii più bocca. Da allora, spesso mi succedeva di rimanere per ore accanto al mio autista senza scambiare una parola con lui. Era troppo. Ero finito. Ricordo solo che un medico in pantaloni bianchi mi disse di guardare da un buco del camion mentre erano ancora lì dentro. Mi rifiutai di farlo. Non potevo. Avrei voluto sparire".
Ma di lì a poco vide qualcosa di ancor più spaventoso. Fu quando Muller lo mandò a Minsk, in Bielorussia, dicendogli: "A Minsk uccidono ebrei passandoli per le armi. Voglio che Lei mi faccia un rapporto su come procedono". E così Eichmann andò, e in un primo momento parve che avesse avuto fortuna, perché quando giunse "la faccenda era quasi finita", cosa che lo consolò molto. "C'erano soltanto alcuni giovani tiratori che miravano alle teste dei morti, in una gran fossa". Però vide, "e questo fu troppo per me", una donna con le braccia legate dietro alla schiena, "e allora mi prese una debolezza alle ginocchia e me ne andai". Sulla via del ritorno, gli venne in mente di fermarsi a Lwòw. Sembrava una buona idea, perché Lwòw (o Lemberg) era stata a suo tempo una città austriaca, e quando vi giunse vide "la prima scena piacevole dopo tanti orrori": cioè "la stazione ferroviaria costruita in onore del sessantesimo anno di regno di Francesco Giuseppe" - un'epoca che egli aveva sempre "adorato" perché ne aveva sempre sentito parlare tanto bene dai suoi genitori e perché aveva anche sentito raccontare che a quel tempo i parenti della sua matrigna (quelli di origine ebraica) avevano goduto di una buona posizione sociale e si erano arricchiti. La vista della stazione ferroviaria fugò tutti i pensieri foschi, ed egli la ricordò in tutti i minimi particolari - per esempio, l'anno scolpito sulla facciata. Ma poi, proprio nella cara Lwòw, commise un grosso errore. Andò a trovare il comandante delle SS della città e gli disse: "E' proprio orribile quello che si sta facendo qui attorno; i giovani si trasformano in sadici. Come si può fare una cosa simile? Infierire su donne e bambini? E' assurdo. Il nostro popolo diverrà pazzo o malato di mente, il nostro popolo". Il guaio era che a Lwòw si stavano facendo esattamente le stesse cose che si facevano a Minsk, e il suo ospite fu lieto di potergli far vedere qualcosa, per quanto lui cercasse con buone maniere di sottrarsi. E così vide un'altra cosa "orribile": "C'era una fossa che ormai era già colma. E, dalla terra, sprizzava uno zampillo di sangue, come una fontana. Una cosa del genere non l'avevo mai vista prima. Ero stufo della mia missione, e tornai a Berlino e riferii al Gruppenfuhrer Muller".
Senonché, non era ancora finita. Sebbene Eichmann gli spiegasse di non essere "abbastanza forte" da tollerare quelle visioni, di non essere mai stato un soldato, di non essere mai stato al fronte, di non aver mai visto un'azione, di non poter dormire e di avere degli incubi, circa nove mesi più tardi Muller lo rimandò nella zona di Lublino, dove nel frattempo lo zelantissimo Globocnik aveva ultimato i suoi preparativi. E questa volta Eichmann vide una delle cose più orribili che avesse mai visto in vita sua. Il posto dove un tempo sorgevano le baracche era irriconoscibile. Guidato come la volta precedente dall'uomo dalla voce volgare, arrivò a una stazione ferroviaria su cui era scritto "Treblinka", in tutto identica a una comune stazione della Germania: stessa architettura, stesse scritte, stessi campanelli, stessi impianti: un'imitazione perfetta. "Mi tenni più indietro che potei, non mi avvicinai per vedere tutto. Tuttavia vidi come una colonna di ebrei nudi, messi in fila in una grande stanza per essere gasati. Qui vennero uccisi, come mi dissero, con una roba chiamata acido cianidrico".

- H. Arendt, La banalità del male, pp. 95-97

domenica 5 aprile 2020

La banalità del male (3)

Di tanto in tanto la commedia sfociava nell'orrido, in storie - probabilmente abbastanza vere - in cui il macabro umorismo superava ampiamente la fantasia di un surrealista. Tale fu la storia che Eichmann raccontò in istruttoria a proposito dell'infelice consigliere commerciale Storfer, di Vienna, rappresentante della comunità ebraica. Eichmann aveva ricevuto da Rudolf Hoss, comandante di Aushwitz, un telegramma in cui lo si informava che Storfer era stato internato e aveva chiesto di vederlo con urgenza. "Dissi tra me e me: in fondo quest'uomo si è sempre comportato bene e merita che io gli dedichi un po' del mio tempo... Andrò di persona a vedere che cosa vuole. E così vado da Ebner [capo della Gestapo a Vienna], ed Ebner dice (ricordo solo vagamente): 'Se non fosse stato così scemo! Si è nascosto e ha cercato di scappare', o qualcosa del genere. E la polizia lo aveva arrestato e mandato nel campo di concentramento, e secondo gli ordini del Reichsfuhrer  [Himmler] nessuno poteva uscire, una volta entrato. Non si poteva far nulla: né io né il dottor Ebner né alcun altro poteva far nulla. Io andai ad Aushwitz e chi chiesi a Hoss di vedere Storfer. 'Già, già [disse Hoss], è in una delle brigate di lavoro'. Con Storfer, dopo, andò bene, fu una cosa normale e umana, avemmo un incontro normale, umano. Lui mi raccontò tutti i suoi guai. Io dissi: 'Sì, mio vecchio caro Storfer, è proprio una scalogna!'. E gli dissi anche: 'Vede, purtroppo non La posso aiutare perché secondo gli ordini del Reichsfuhrer nessuno può uscire. Io non posso farLa uscire; il dott. Ebner neppure. Ho sentito dire che Lei ha fatto uno sbaglio, che si è nascosto o voleva scappare, eppure non c'era bisogno che Lei facesse una cosa simile' [in quanto funzionario ebraico, Storfer non poteva essere deportato]. Non ricordo che cosa mi rispondesse. E poi gli chiesi come stava, e lui mi disse che voleva sapere se poteva essere esonerato dal lavoro, era un lavoro duro. E allora io dissi a Hoss: 'Lavoro - Storfer non vuole lavorare'. Ma Hoss disse: 'Tutti lavorano qui', e allora io dissi: 'Se è così, dissi, farò un discorsino perché Storfer debba tenere in ordine i viottoli con la scopa (c'erano pochi viottoli, lì) e perché abbia il diritto di sedersi con la scopa su una panca'. Dissi [a Storfer]: 'E' contento, signor Storfer? Le va?'. Lui era tutto soddisfatto, ci stringemmo la mano, e poi gli fu data una scopa e si sedette sulla panca. Fu una gran gioia per me potere almeno rivedere l'uomo con cui avevo lavorato per tanti anni, e poterci parlare". Sei settimane dopo questo incontro normale e umano Storfer era morto - non nelle camere a gas, a quanto pare, ma fucilato.

- H. Arendt, La banalità del male, pp. 58-59

giovedì 2 aprile 2020

La banalità del male (2)

Il contrasto fra l'eroismo del Nuovo Israele e la rassegnata sottomissione con cui gli ebrei andavano a morte (arrivando puntuali ai centri di smistamento, recandosi con i propri piedi ai luoghi d'esecuzione, scavandosi la fossa con le proprie mani, spogliandosi da sé e ammucchiando in bell'ordine le vesti, distendendosi uno accanto all'altro per essere uccisi) sembrava un buon argomento, e il Pubblico Ministero, cercando di sfruttarlo al massimo, si preoccupò di chiedere a tutti i testimoni: "Perché non protestavate? Perché salivate sui treni? Perché, essendo in quindicimila contro poche centinaia di guardie, non vi ribellaste passando all'attacco?". Ma la triste verità è che quell'argomento serviva a ben poco, perché nessun gruppo etnico, nessun popolo si sarebbe comportato diversamente. Parecchi anni fa, ancora sotto l'impressione diretta di quegli avvenimenti, David Rousset, già ospite del campo di Buchenwald, tratteggiò una situazione che, come noi sappiamo, era la stessa in tutti i campi di concentramento: "Il trionfo delle SS esige che la vittima torturata si lasci condurre dove si vuole senza protestare, che rinunzi a lottare e si abbandoni fino a perdere completamente la coscienza della propria personalità. E c'è una ragione. Non è senza motivo, non è per puro sadismo che gli uomini delle SS desiderano il suo annientamento spirituale: essi sanno che distruggere la vittima prima che salga al patibolo... è il sistema di gran lunga migliore per tenere un popolo intero in schiavitù, assoggettato. Nulla è più terribile di questi esseri umani che vanno come automi incontro alla morte" (Les jours de notre mort, 1947).
La Corte non ricevette risposta a quelle crudeli e goffe domande, eppure sarebbe bastato ricordare per un istante la tragica sorte di quegli ebrei olandesi che nel 1941, nel quartiere ebraico di Amsterdam, osarono attaccare un reparto della polizia di sicurezza tedesca. Quattrocentotrenta ebrei furono arrestati per rappresaglia e torturati a morte, dapprima a Buchenwald e poi nel campo austriaco di Mauthausen. Per mesi e mesi morirono di mille morti, e ognuno di essi avrebbe invidiato i suoi fratelli di Aushwitz e anche di Riga e di Minsk. Esistono molte cose di gran lunga peggiori della morte, e le SS sapevano bene di essere costantemente presenti alla mente e all'immaginazione delle loro vittime. Sotto questo rispetto, forse ancor più che sotto altri, il deliberato tentativo compiuto al processo di presentare le cose soltanto dal lato ebraico distorse la verità, anche la verità ebraica. La gloria della sollevazione di Varsavia e l'eroismo dei pochi altri ebrei che combatterono sono riposti proprio nel rifiuto di accettare la morte relativamente facile offerta dai nazisti, dinanzi al plotone di esecuzione o nella camera a gas. E i testimoni che a Gerusalemme parlarono della resistenza e della ribellione, del "piccolo posto" che essi avevano avuto "nella storia dell'olocausto", confermarono ancora una volta che soltanto i giovanissimi erano stati capaci di prendere la drammatica decisione: "Non dobbiamo lasciarci ammazzare come pecore".

- H. Arendt, "La banalità del male", Universale Economica Feltrinelli, pagg 19-21.

mercoledì 1 aprile 2020

La banalità del male (1)

La giustizia non permette nulla di tutto questo: richiede isolamento, vuole più dolore che collera, prescrive che ci si astenga il più possibile dal mettersi in vista.

- H. Arendt, La banalità del male, p. 14