giovedì 2 aprile 2020

La banalità del male (2)

Il contrasto fra l'eroismo del Nuovo Israele e la rassegnata sottomissione con cui gli ebrei andavano a morte (arrivando puntuali ai centri di smistamento, recandosi con i propri piedi ai luoghi d'esecuzione, scavandosi la fossa con le proprie mani, spogliandosi da sé e ammucchiando in bell'ordine le vesti, distendendosi uno accanto all'altro per essere uccisi) sembrava un buon argomento, e il Pubblico Ministero, cercando di sfruttarlo al massimo, si preoccupò di chiedere a tutti i testimoni: "Perché non protestavate? Perché salivate sui treni? Perché, essendo in quindicimila contro poche centinaia di guardie, non vi ribellaste passando all'attacco?". Ma la triste verità è che quell'argomento serviva a ben poco, perché nessun gruppo etnico, nessun popolo si sarebbe comportato diversamente. Parecchi anni fa, ancora sotto l'impressione diretta di quegli avvenimenti, David Rousset, già ospite del campo di Buchenwald, tratteggiò una situazione che, come noi sappiamo, era la stessa in tutti i campi di concentramento: "Il trionfo delle SS esige che la vittima torturata si lasci condurre dove si vuole senza protestare, che rinunzi a lottare e si abbandoni fino a perdere completamente la coscienza della propria personalità. E c'è una ragione. Non è senza motivo, non è per puro sadismo che gli uomini delle SS desiderano il suo annientamento spirituale: essi sanno che distruggere la vittima prima che salga al patibolo... è il sistema di gran lunga migliore per tenere un popolo intero in schiavitù, assoggettato. Nulla è più terribile di questi esseri umani che vanno come automi incontro alla morte" (Les jours de notre mort, 1947).
La Corte non ricevette risposta a quelle crudeli e goffe domande, eppure sarebbe bastato ricordare per un istante la tragica sorte di quegli ebrei olandesi che nel 1941, nel quartiere ebraico di Amsterdam, osarono attaccare un reparto della polizia di sicurezza tedesca. Quattrocentotrenta ebrei furono arrestati per rappresaglia e torturati a morte, dapprima a Buchenwald e poi nel campo austriaco di Mauthausen. Per mesi e mesi morirono di mille morti, e ognuno di essi avrebbe invidiato i suoi fratelli di Aushwitz e anche di Riga e di Minsk. Esistono molte cose di gran lunga peggiori della morte, e le SS sapevano bene di essere costantemente presenti alla mente e all'immaginazione delle loro vittime. Sotto questo rispetto, forse ancor più che sotto altri, il deliberato tentativo compiuto al processo di presentare le cose soltanto dal lato ebraico distorse la verità, anche la verità ebraica. La gloria della sollevazione di Varsavia e l'eroismo dei pochi altri ebrei che combatterono sono riposti proprio nel rifiuto di accettare la morte relativamente facile offerta dai nazisti, dinanzi al plotone di esecuzione o nella camera a gas. E i testimoni che a Gerusalemme parlarono della resistenza e della ribellione, del "piccolo posto" che essi avevano avuto "nella storia dell'olocausto", confermarono ancora una volta che soltanto i giovanissimi erano stati capaci di prendere la drammatica decisione: "Non dobbiamo lasciarci ammazzare come pecore".

- H. Arendt, "La banalità del male", Universale Economica Feltrinelli, pagg 19-21.

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