domenica 14 marzo 2021

Un miliardo e trecento milioni di anni fa


Un miliardo e trecento milioni di anni fa. Questo è quello che ti risponderei se mi chiedessi quando è stato che la mamma e io ci siamo innamorati.
Si tratta di una storia stranissima, di quelle vere solo se ci si vuole credere. Un po’ come quegli articoli dell’università di Boston secondo i quali una ricerca dimostra che avere uno dei nostri peggiori difetti sia la prova che siamo geniali. Tipo che se non riesci a svegliarti la mattina sei un genio. O se dici molte parolacce. O se usi sempre gli stessi vestiti. Pare che a Boston facciano solo ricerche per far sentire meno in colpa gli sciagurati. A Boston e in Canada. Sono articoli stranissimi e nel mio personale caso, volerci credere li rende più attendibili.
La storia comincia simultaneamente in tre date diverse.
La mattina del 14 settembre 2015 ebbi un malore. Finii in ospedale. Dal nulla avevo sentito una fitta alla bocca dello stomaco, mi piegai in due, resistetti qualche ora e poi supplicai mia sorella di venire a prendermi per portarmi al pronto soccorso perché non sarei stato in condizione di guidare. Non fui in grado nemmeno di salire in macchina. O di scendere dalla macchina. Fui portato dentro in barella, mi contorcevo e piangevo, mi imbottirono di roba, mi addormentarono e non ricordo altro per un po’.
Tua madre quello stesso giorno si trovava nel ristorante dove lavoravo da sette anni. Durante l’estate appena trascorsa il mio titolare aveva dato lavoro anche a lei e per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti qualche giorno non precisato di diciotto anni prima, la mia migliore amica e io avevamo potuto stare insieme tutti i giorni. Ed era stato bello. Molto. Parlavamo tanto, anche tutta la notte dopo il servizio. Hai presente quelle amicizie che per quanto profonde perdurano solo perché ci si vede una volta al mese perché si idealizza l’altro e poi non sopravvivono a una frequentazione più assidua? Tua madre e io nell’estate del 2015 scoprimmo che i lunghi intervalli tra i nostri incontri negli anni altro non erano stato che un’infinità di tempo buttato via. Venne fuori che le conversazioni al telefono di casa quando eravamo adolescenti non erano state lunghe perché ci sentivamo di rado, erano state brevi perché interrotte dai nostri genitori.
Ancora oggi tua madre e io abbiamo tante di quelle cose da dirci che non smettiamo mai di parlare.
La sua stagione lavorativa comunque era finita e per entrambi era difficile dare un nome alla confusione che quella rinnovata distanza generava. Ci vollero due settimane perché tua madre decidesse di venire a trovarmi a lavoro. E non mi trovò. Per la prima volta da quando ero stato assunto, non ero a lavoro. Ora, dovresti chiedere a lei di spiegarti come questo la fece sentire, è molto brava a raccontare questa parte. Per quanto riguarda me, io seppi successivamente da altri che sbiancò preccupata perché pare che all’epoca avessi fama di uno che va a lavoro anche con la febbre, affrontando orde di clienti voraci bendato e con una mano legata dietro la nuca. A detta di altri. Lei ti dirà che è stato un episodio rivelatore di come la mia assenza la facesse sentire, solo che lo dirà meglio di così.
In ospedale, io chiedevo a mia sorella di telefonare alla mia ragazza per rassicurarla e dirle di non venire da me. Sminuivo le mie condizioni, insistevo che continuasse la sua giornata, le proibivo di preoccuparsi. Era una brava ragazza, non aveva colpe. In tre anni di relazione non le avevo permesso di amarmi nel modo in cui lei avrebbe voluto amare, c’era un limitato numero di cose che sarei stato disposto a condividere di me stesso e se non si è precipitata ugualmente al pronto soccorso è stato solo perché subiva molto e forse troppo le mie argomentazioni, al punto da far sembrare ragionevole anche a me non consentirle di starmi accanto solo perché io avevo appena scoperto che in quel momento accanto avrei voluto qualcun altro.
E se tua madre e io avevamo bisogno di una situazione così estrema per pensarci l’un l’altra in quei termini, quella stessa situazione innescò in me una serie di considerazioni personali che richiesero molto tempo per essere metabolizzate. Fu in quel letto di ospedale che cominciai a farmi la domanda giusta. Ero uno. E attorno a me c’erano altri. C’erano gli amici, c’erano i colleghi, i famigliari, c’era la mia ragazza. Ero uno con altre persone. Negli anni avevo accettato questa mia condizione, il sereno, forse cinico e senza dubbio arrogante convincimento di essere indigesto nella mia completezza ma gradevole a piccoli bocconi. Mi ero fatto andare bene che anche in mezzo agli altri sarei stato per sempre solo, per sempre dando loro quanto bastasse a farli stare bene e tenendo in una stanza le cose di me stesso che credevo avrei capito solo io. E se a chi mi stava accanto non era consentito conoscermi, con paternalistica presunzione avrei accettato di accondiscendere a quelle consuetudini che la società impone secondo le quali a una certa età è auspicabile sposarsi e mettere su famiglia. Pur non sentendone la necessità, se davvero ero uno con qualcuno e quel qualcuno mi voleva bene, era simpatica e attraente, allora perché no? Se la mia ragazza me l’avesse chiesto, io mi sarei sposato esattamente come pochi anni prima era accaduto a tua madre con tuo padre. E per tutta la vita mi sarei accontentato di essere uno con qualcuno piuttosto che uno e basta. Ma se in cattiva sorte e in malattia non era di quel qualcuno che avevo bisogno, allora forse chiedersi perché no era la prospettiva errata. Perché sì? Questo è ciò che tutti dovrebbero domandarsi. Qualsiasi sia la scelta. Non dovremmo scegliere quel lavoro perché no, o quella facoltà perché no. O quella persona. Dovremmo sposare il perché sì. Ancora oggi, bimbo mio, se cerco altro modo per spiegarlo non mi riesce: ero uno. Anche con qualcuno ero uno. Con tua madre ero due.
Voglio essere chiaro: ci sarebbe voluto ancora molto tempo perché capissi di essere innamorato di tua madre. Quello che capii quel giorno fu che esisteva un modo in cui potessi essere me, tutto me, con qualcuno a cui non sembrava disturbare. E se nelle pieghe del suo matrimonio avessi trovato lo spazio per continuare a parlare con la mia migliore amica e essere me almeno in quei momenti, l’unica cosa giusta a cui riuscivo a pensare era lasciare andare la persona a cui non avrei mai, suo malgrado, concesso nulla di simile.
Tante cose successero dopo la fine della mia relazione, ma in buona sostanza se volessi riassumere ti direi che spesi tutti i miei risparmi per partire da solo oltreoceano, e al mio ritorno tua madre mi organizzò una gigantesca festa a sorpresa durante la quale tu che a malapena sapevi parlare mi rimproverasti per aver leccato le candeline sulla torta.
Vedi, per quanto strano ti possa sembrare leggendolo oggi, perché capissimo di dover stare insieme per tua madre e me è stato necessario intraprendere percorsi tortuosi su sentieri per lunghi tratti paralleli e spesso intersecanti, come Kate Beckinsale e John Cusack in un film uscito lo stesso anno in cui presi una cotta per una ragazzina che mi costrinse a non parlare più con lei. Idiota. Io, non la ragazzina. Lei al contrario era piuttosto sveglia se si era accorta con quindici anni di anticipo rispetto a noi che quando tua madre e io parlavamo viaggiavamo su una lunghezza d’onda che il resto del mondo non era attrezzato per captare. Una lunghezza d’onda ben strana perché estromette tutte quelle informazioni che sarebbe difficile considerare ridondanti, tipo quando ci siamo conosciuti e come, o che giorno fosse e che film stessimo guardando quando almeno diciotto anni dopo ci ritrovammo migliori amici con le mani intrecciate per la prima volta e abbiamo pianto. Né tua madre né io ce lo ricordiamo. Ricordiamo però che nella primavera del 1999 attraverso il telefono io sentii tua nonna far cadere una posata al piano di sotto e indovinai che era un cucchiaio. Ho speso due vite a cercare aghi nei pagliai senza sapere che la figlia del contadino l’avevo già trovata, per parafrasare Julius Comroe.
Eppure tua madre e io abbiamo passato quasi vent’anni a gravitarci intorno prima di collassare insieme, proprio come due stelle in un sistema binario ruotano una attorno all’altra per un tempo lunghissimo, ciascuna trasformandosi di per sé senza poter negare di essere influenzata dall’orbita dell’altra, sebbene a tratti sia così lontana che il fulcro attorno a cui ruotano può sembrare indipendente, ma solo perché in realtà si sposta con loro in un effetto fionda inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separa. Ne studiano tante, di stelle così; nel 2017 hanno assegnato il Nobel per la fisica a Kip Thorne, quello che ha scritto la sceneggiatura di Interstellar con Christopher Nolan, per aver studiato due stelle binarie che si sono girate intorno così a lungo da arrivare a trasformarsi in due buchi neri e poi hanno continuato a girarsi intorno anche così, legati da sempre in un destino condiviso che non gli ha impedito di prendersela comoda. Finché un giorno finalmente i due buchi neri sono collassati uno nell’altro, intrecciando le loro mani dopo aver speso la vita a scansare altre stelle mentre si cadevano addosso, sebbene la matematica dica sia impossibile che trovino l’energia per percorrere l’ultimo parsec che li separa.
Pensa che l’esplosione derivata dalla loro collisione è stata così potente, ma così potente, che il suo picco ha sprigionato in una frazione di secondo un’energia dieci volte superiore all’energia luminosa di tutte le stelle del cielo messe insieme. Un’energia così potente che ha viaggiato nello spazio arrivando a colpire la Terra un miliardo e trecento milioni di anni dopo, precisamente il 14 settembre 2015, alle 9 e 50 minuti e 45 secondi, ora di Greenwich.
Ovviamente quel giorno non potevo saperlo, perché la notizia sarebbe stata divulgata solo l’anno successivo; l’11 febbraio 2016, in quello che per me fu semplicemente il decimo compleanno che mio padre non avrebbe festeggiato, la comunità scientifica celebrava la più significativa scoperta del secolo: onde gravitazionali talmente massicce da increspare il tessuto dello spazio-tempo, investendoci a oltre un miliardo di anni luce dal punto di origine. Come se l’esplosione fosse appena avvenuta, abbiamo fotografato due buchi neri che si abbracciavano quando sulla Terra esistevano a malapena gli antenati dei batteri. Perché, bimbo mio, due eventi possono accadere contemporaneamente e a distanza di tempo.
Se nel preciso istante in cui leggi questa frase esplodesse il Sole, tu te ne accorgeresti tra otto minuti. Quello è il tempo che impiega la sua luce per percorrere centocinquanta milioni di chilometri e raggiungere la Terra. Le conseguenze dell’esplosione della nostra stella, per quanto apocalittiche, non potrebbero viaggiare più velocemente di così. E se da te fosse giorno, e non ci fossero nuvole, e ti affacciassi alla finestra, e il Sole fosse già esploso, tu potresti pensare di stare a guardarlo alto nel cielo, ma in realtà staresti guardando una foto del Sole scattata dai suoi raggi otto minuti prima. Gli ultimi otto minuti della tua vita li trascorreresti a farti carezzare il viso dal tuo assassino che è già morto da tempo. Questo pensiero terribilmente magnifico ti dà la misura di quanto siamo piccoli. Non paragonati al Sole o alle altre stelle: piccoli al cospetto del tempo. John Archibald Wheeler una volta disse che il tempo è ciò che impedisce alle cose di accadere tutte in una volta. Avevo diciassette anni quando lo sentii dire per la prima volta in un corso di fisica atomica che seguivo di nascosto: passai quattro mesi a marinare la scuola per sapere come funziona l’orizzonte degli eventi e l’unica cosa che ricordo lucidamente di quel corso è questa citazione. Forse è proprio questo il punto: da qualche parte, in un foglio della realtà, esiste un diverso modo di percepire in cui il tempo è una scatola dentro la quale tutte le cose sono già tutte successe, mischiate e navigabili, sono e non sono. In quella scatola tua madre e io ci siamo innamorati e non ci siamo conosciuti ancora. Da qualche parte in quella scatola ci siamo allontanati mentre le nostre mani si incontravano guardando un film che non riusciamo a ricordare. Abbiamo sposato qualcun altro mentre due buchi neri collassavano l’uno nell’altro e l’esplosione derivante mi mandava in ospedale perché tua madre mi cercasse in una pizzeria nell’unico giorno della mia vita in cui non ho lavorato e potesse capire quanto le mancavo. Da qualche parte lì dentro ci sei tu, che sei e non puoi non essere altrimenti non voglio nessuna scatola, mentre il Sole non esiste più eppure splende in cielo. Perché io tua madre la amerò per sempre e, per citare un autore che piace a lei, a volte per sempre è solo un secondo.

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