venerdì 11 ottobre 2019

Le generazioni Nichiliste

1. La generazione del pugno chiuso

La davano per archiviata. Ma, a sentire il ministro degli Interni Giuliano Amato, così non è. Mi riferisco a quella generazione di giovani dal pugno chiuso, che a trant'anni di distanza si ripropone: o per una richiesta d'amnistia o per il riaccendersi di alcuni temibili focolai che nulla di buono lasciano presagire.
Di che si tratta? Di quel terrorismo ideologico che non rappresenta "una serie di provocazioni illecite destinate a passare", come si pensava negli anni sett'anta e forse ancora oggi da parte di chi sottovaluta i numerosi casi di minacce ed insulti alle forze dell'ordine, ma neanche, come allora riteneva Rossella Rossanda, "la fisiologia di una società vivente di diversi soggetti e interessi nel loro aturare, incrociarsi, scatenarsi, cadere, modificare l'esistenza".
L'una e l'altra interpretazione, infatti, rimangono sul piano sociologico e perciò leggono l'emergenza o come aberrazione del corretto procedere sociale o come fisiologia che sta alla base di ogni trasformazione sociale.
Finché le definizioni non sporgono dal piano sociologico, l'alternativa "amnistia" o "soluzione politica" resta una scelta conseguente alle definizioni date. Ma il terrorismo ideologico non è un fatto sociale, bensì la rottura del patto sociale. Il patto sociale, infatti, si regola sul valore di scambio. L'emergenza terroristica interrompe il valore di scambia e sposta tutto nella sfera dello scambio simbolico dove in gioco non è la contrattazione, ma la sfida.
[...]
Il dono del lavoro, il dono del salario, il dono dei beni da consumare, il dono del tempo libero, il dono dei media e dei loro messaggi, tutto naturalmente sotto il monopolio del codice che non permette di replicare. Poi il dono della protezione, della sicurezza, della gratificazione, della partecipazione sociale, naturalmente nelle modalità previste, ma comunque tali da non consentire a nessuno di sfuggire. Avendo così ridotto i soggetti sociali da contraenti a oggetti sociali gratificati dai doni, il sistema ha preparato il terreno all'irruzione del simbolico, che ritorce contro il sistema il principio stesso del suo potere: l'impossibilità di risposta.
Un sistema sociale, infatti, è sfidato quando è posto nella condizione di non poter rispondere con la sua logica che è quella della contrattazione, tipica di ogni società che si è emancipata dalla violenza simbolica che regolava le società primitive.
Se concordiamo che il terrorismo ideologico non è aberrazione sociale o fisiologia del sociale, ma interruzione del sociale e della sua regola, possiamo dirci usciti dagli anni di piombo quando la contrattazione riprende il sopravvento sulla sfida simbolica. E' quanto sta accadendo con la legge sui pentiti, dove in un certo senso si assiste alla restarauzione dei contraenti e quindi al ritorno della contrattazione. [...]

2. La "generazione x" degli indifferenti

Non abbiamo occhi, non abbiamo schemi di lettura per capire qualcosa di molti ragazzi tra i quindici e i venticinque anni, nonostante questa generazione sia stata studiata, classificata vivisezionata da istituti di ricerca come mai era capitato ad altre generazioni di giovani.
Di loro si parla come del "pianeta degli svuotati" o come della "generazione degli sprecati", indecifrabili come una "x" ignota. I loro progetti hanno il respiro di un giorno, l'interesse la durata di un'emozione, il gesto non diventa stile di vita e l'azione si esaurisce nel gesto. La passione imprecisa non sa se aver legami con il cuore o con il sesso e non riesce a decidere con chi dei due entrare in intensa relazione.
L'aggressività non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, e l'ira di un giorno è subito cancellata da una notte, nella cui vigilia si celebra l'eccesso della vita oltre la misura concessa, in quella gioiosa confusione dei codici, fino al limite dove è il codice della vita a confondersi con quello della morte, se è vero, come abbiamo visto, che tra i giovani sotto i venticinque anni il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli incidenti automobilistici. Un suicida su dieci raggiunge il suo obbiettivo al secondo tentativo, senza che in famiglia, a scuola o tra gli amici traspaia qualcosa del loro mal di vivere.
[...]
Nascono allora quelle malinconie che hanno abbandonato il tono del tumulto per frequentare le stanze della rassegnazione. E nei giovani meno autentici, neppure un attimo di disperazione, perché non si dà disperazione là dove la speranza si è da tempo congedata. [...]

3. La "generazione Q" dal basso quoziente intellettivo ed emotivo

Conoscono la differenza tra il bene e il male e se ne fregano. Che si tratti dei ragazzi che per festeggiare la fine degli esami di maturità impediscono a un extracomunitario di risalire l'argine del fiume, che si tratti dei ragazzi del cavalcavia che non per volontà omicida ma così, scaraventano pietre sull'autostrada, che si tratti di studenti universitari che, non per ragioni premeditate, ma così, traforano il cranio a una studentessa, sono questi i rappresentanti di quella "Generazione Q", come la chiama il sociologo tedesco Falko Blask, dove "Q" sta per "quoziente intellettivo ed emotivo non particolarmente elevato", che si è aggiunta alla "generazione x" raccolta nella sua rassegnata commiserazione. Blask parla di chi è affetto da "Fattore Q" come di:

Un buffone cosmico, fantasioso ed egocentrico, che rappresenta l'incarnazione ideale del mascalzone, privo di scrupoli, ma equanime, al di là del bene e del male.

Quanto basta per definire i seguaci del "Fattore Q" affetti da sociopatia o psicopatia, due parole che stanno a designare quella condizione psicologica per cui il soggetto non prova alcuna risonanza emotiva per le azioni che compie, anche le più criminose.[...]

4. Il silenzio degli squatter

Dopo la "generazione dei giovani dal pugno chiuso" che, con il grido insurrezionale e con il gesto anche violento, volevano cambiare il mondo e gridare in faccia qualcosa a qualcuno, siamo precipitati nel collasso della comunicazione: o perché non si ha niente da dire ("generazione x" degli indifferenti), o perché si è incapaci di stabilire relazioni ("generazione Q" dei sociopatici), o per decisa volontà di non parlare, di non raccontarsi e di non farsi raccontare, perché si è persa qualsiasi forma di fiducia in chi ha la possibilità di rispondere, e non risponde.
Siamo agli "Squatter", che non sono figli del benessere e neppure figli della noia. Non assomigliano nemmeno ai loro predecessori dal pugno chiuso, perché costoro volevano cambiare il mondo e lo urlavano a quanti lo volevano tener fermo nella roccaforte dei loro solidificati interessi, mentre gli squatter a questo cambiamento del mondo non ci credono più. E allora non gridano rivoluzione, ma disperata rassegnazione. Una rassegnazione che conoscono quanti non solo non ritengano che le cose possano cambiare, ma neppure che gli altri, gli uomini dell'informazione, della politica, della scuola, del mondo del lavoro, possano capire.
Dopo aver assaporato l'irrilevanza della loro incidenza sociale, gli squatter vanno alla ricerca di una nicchia dove poter mettere in scena la loro disarticolata ed epocale sventura. Dico epocale perché è la prima volta nella storia che, come vuole l'indicazione di Hegel, un "servo" non ha davanti un "signore", con cui prendersela, perché i padroni sono diventati, come i loro dipendenti, a loro volta semplici funzionari di un sistema (il mercato) che entrambi li trascende.
Accade così che per la prima volta un "disagiato sociale" non può prendersela con la politica, perché ha annusato che la politica non è più il luogo delle decisioni, essendosi questo luogo trasferito altrove: nell'economia organizzata quasi esclusivamente da fattori tecnici. Ma la tecnica, ognuno lo sa, e gli squatter lo fiutano, non ha fini da realizzare, né altro scopo a cui tendere che non sia il proprio potenziamento. E ciò trasforma da subito il lavoratore in un semplice e anonimo col-laboratore di questo potenziamento senza scopo e senza perché.
A tutto ciò lo squatter dice no! E siccome l'età della tecnica non offre più uno scenario dove si possono scontrare, come pensava Marx, due volontà, quella del "servo" e quella del "signore", ma uno scenario di automatismi tecnici muti ma efficaci e funzionali, con chi dovrebbero parlare gli squatter? Con i poltici che si trovano nella condizione di non poter decidere, ma solo far eseguire la sequenza ordinata di questi automatismi? Con gli uomini dell'informazione che ogni giorno spiegano gli atti esecutivi e non decisionali della politica, che algli squatter appare come un sovrano spodestato?
No, gli squatter cercano una boccata di senso nel mondo dell'insensatezza, che ha come una direzione la crescita infinita senza ragione e senza perché. Resta da capire se l'eco-terrorismo, di cui gli squatter sono stati inizialmente accusati, abbia qualche attinenza col mondo della tecnica che vediamo come causa prima che vediamo come causa prima della mancanza di senso dilagante. [...]

5. I ragazzi dello stadio e la violenza nichilista

Non è l'unica, ma quella degli stadi è la violenza più emblematica, messa in atto da quanti, ogni domenica, con una cadenza orai rituale, sono soliti provocare incidenti, guerriglie neppure tanto simulate, con i loro passamontaglia calati, perché la violenza è codarda, con i loro fumogeni che annebbiano l'ambiente per garantire impunità, le loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che quando non spaventano, feriscono, con le loro bombe-carta che uccidono. [...]
La loro violenza è nichilista perché è assurda, e assurda perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno scopo. E' puro scatenamento della forza che non si sa come impiegare e dove convogliare, e perciò si sfoga nell'anonimato della massa, senza considerazione e senza calcolo delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento in cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e qualsiasi scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, diventa completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata crudeltà nichilista. [...]
(La violenza nichilista) si ritualizza secondo quel meccanismo che Freud ci ha spiegato là dove scrive che la violenza, latente nell'inconscio individuale di ciascuno di noi, diventa manifesta nell'inconscio collettivo di massa, dove la responsabilità individuale è difficile da identificare e l'impunità generale diventa un salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione, perché la violenza nichilista è autosufficiente.
E allora l'orgia della crudeltà si ripete con monotona regolarità con cui si succedono i sabati e le domeniche di campionato. [...] E siccome la routine annoia, come i drogati, [...], hanno bisogno di dosi sempre più forti, per allontanare la noia sempre incombente.[...]
Vivendo esclusivamente per la prosecuzione di se stessa, la violenza nichilista traduce la barbarie in normalità.

- U. Galimberti, "L'ospite inquietante", pp. 123-139

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